È successo tutto in fretta. Nel 2016 ancora si celebrava il quarantennale della Davis cilena piangendo sul deserto della contemporaneità. Ma sott’acqua si stava muovendo qualcosa. Viaggio nella metamorfosi di uno sport. L’aumento delle scuole. La nuova mentalità dei maestri. E l’esplosione progressiva del 22enne altoatesino.
Avremo sempre Málaga, direbbe Humphrey Bogart, comunque sia, qualunque cosa accada da oggi in avanti al tennis italiano. Avremo sempre Málaga e il ricordo di questa settimana, come dal 1976 abbiamo conservato l’altro, leggendario, di Santiago in Cile.
Ma stamattina è netta la sensazione che non dovranno passare gli stessi quarantasette anni per rivincere una Coppa Davis. Il motivo abita negli occhi di questo ex ragazzino diventato un uomo, ancora stortignaccolo in campo come quando apparve, con le stesse gambe sottili e lunghe strappate allo sci che gli piaceva da bambino, con qualche muscolo in più nelle braccia e nel busto, ma soprattutto con uno sguardo adulto.
Succede nei ventenni, succede all’improvviso. Un giorno li osservi e sono grandi. Hanno attraversato una linea, un limite. Jannik Sinner con le linee ci lavora. Con le linee e con i limiti. Calpesta righe e le cerca coi suoi colpi, le sfiora, le pizzica. Ce ne sono altre che nessuno traccia in campo, non sono segni, sono le idee che gli passano per la testa. Ogni palla disegna una scia quando lascia la racchetta. I bravi giocatori sanno mandarla dove in quel momento dovrebbe andare, i campioni vedono spazi ai più invisibili, i fuoriclasse gli spazi li inventano.
Questo è successo in due settimane. Jannik Sinner ha smesso di piazzare la palla nel posto giusto imparato dai maestri, dove dicono i manuali, adesso la mette dove poteva pensarlo solo lui.
La svolta contro Djokovic
Non gli sarebbero bastate le ore di lezione, le ore di allenamento, non gli sarebbe bastata tutta la logica di questo mondo per uscire dalla fossa in cui si era venuto a trovare sabato a las cinco de la tarde, l’ora delle campane d’arsenico, e per giunta in Spagna. Per rimontare tre match-point a Novak Djokovic ha dovuto sbloccare un livello, come nei videogame. Ha raccolto un errore del serbo, ha messo un servizio vincente e ha giocato una volèe. A quel punto ha visto cose. Due cose. La linea da seguire per segnare un ace e quella successiva per un passante di dritto. È riuscito a vederle perché il martedì dell’altra settimana aveva battuto Djokovic per la prima volta in vita sua, a Torino, nella partita del girone del Masters. Un muro abbattuto. Aveva guadagnato fiducia. E le ha viste perché alla domenica succcessiva, da Djokovic era stato sconfitto in finale. Così aveva guadagnato pure rabbia. È il carburante che sta nel serbatoio dei grandi, quando l’ultima sconfitta brucia e la volta dopo la ricordi.
Una coppa rivoluzionata
L’Italia ha vinto la Davis in quel momento là, prima di vincerla davvero ieri sera in finale contro l’Australia, un paese che nella sua storia ne aveva giocate 48 e conquistate 28, tre su tre contro gli azzurri, ma sempre sull’erba di casa sua, prima che questo torneo centenario cambiasse faccia, per necessità, per non morire. Aveva finito per occupare in calendario quattro settimane all’anno, troppe in mezzo agli altri impegni dei tennisti giramondo, senza assegnare punti per la classifica e senza montepremi, eccetto un simbolico gettone di presenza delle federazioni. La Davis stava morendo, i grandi non ci andavano più. Da tempo non era più quella rimpianta del ’76. Era diventato un torneo per romantici, casomai per i più accesi nazionalisti. Sei anni fa Djokovic fu l’unico fra i primi-15 al mondo a giocarla.
Non c’era un solo amante del tennis che non vedesse l’urgenza di cambiarla, ma quando la federazione internazionale l’ha venduta ai privati in cambio di due miliardi e mezzo, i puristi sono insorti. I privati erano dei barbari, nel senso di invasori, degli estranei al tennis, erano la società Kosmos, per giunta di proprietà di un calciatore – orrore – lo spagnolo Piqué. Ora, dopo quattro anni, le parti sono in causa per una faccenda di soldi, ma la nuova Davis nel frattempo ha preso una fisionomia in linea con quanto succede in altri sport. Per ingolosire le tv ha fatto la cura dimagrante: tre match anziché cinque, tre set anziché cinque, i turni durano un giorno anziché tre. In una sede sola. Come i Mondiali di calcio. Apriti cielo. I custodi della sacralità se ne sono risentiti. Anche in Italia ci sono state molte critiche, da editorialisti, da ex campioni, da ex campioni editorialisti, perfino dal presidente della federazione italiana che aveva votato sì al cambiamento. Ma non oggi. Oggi la Coppa Davis pare di nuovo a tutti bellissima.
Il movimento italiano
La nuova Davis ha avuto il merito di riportare i campioni a giocarla. Nel 2019 l’ha vinta la Spagna con Nadal, nel 2021 la Russia con Medvedev. Allo stesso tempo premia una squadra, stemperando l’importanza di un solo fuoriclasse (per chi ce l’ha). Ha ridato importanza al doppio che vale di più, un punto su tre anziché uno su cinque. L’Italia ha dovuto inventarselo. Uno titolare manca. Il cittì Volandri ha rotto con uno degli specialisti, il veterano Fabio Fognini, peraltro ieri vincitore di un torneo minore a Valencia, ma tu guarda, sempre in Spagna. Volandri ha dovuto accantonare pure il suo compagno abituale Bolelli e ha chiesto gli straordinari a Sinner. È nato una coppia occasionale con Lorenzo Sonego, inventata più per affinità umane che per qualche chimica tecnica. Ha funzionato. Ma bisognerà lavorare su questo, per non attendere i famosi 47 anni. Da giovedì a sabato tutti i punti italiani sono arrivati solo con Sinner in campo. Contro gli australiani la strada è stata invece aperta dal punto portato in singolare da Matteo Arnaldi, sanremese, 22 anni, l’ultimo italiano che ha preso l’ascensore del tennis. Da bambino si divideva tra la piscina e la racchetta. Giocava con il nonno. Solo a luglio del 2022 era ancora oltre i primi 200 e perdeva dagli sconosciuti come lui, per esempio a San Benedetto del Tronto. E invece ha vinto la Coppa Davis – lui che ha la fidanzata australiana.
È successo tutto in fretta. Nel 2016 ancora si celebrava il quarantennale della Davis cilena piangendo sul deserto della contemporaneità. Ma sott’acqua si stava muovendo qualcosa. È venuto a mostrarlo Matteo Berrettini, il primo bagliore, semifinale a New York, finale a Wimbledon, ora alle prese con un corpo in rimessaggio. Un patrimonio da recuperare. È stato il primo frutto della nuova politica federale. Una sterzata nei rapporti con i circoli privati. Si è chiusa l’era dei finanziamenti a pioggia. I contributi sono andati a sostenere i giocatori più promettenti. È caduto il dogma dell’intoccabilità di Tirrenia, il vecchio centro federale dove talenti acerbi erano sradicati dalle loro realtà e spesso si perdevano. I tecnici della federazione hanno iniziato un percorso di condivisione di esperienze con i maestri locali. Li hanno invitati a essere più internazionali, anziché ritirarsi nei circoli sotto casa per 2mila euro al mese. Le scuole tennis sono passate da 1.200 a 2.000. Esistono quasi 150 centri di aggregazione provinciale, dove la politica del decentramento organizza raduni sistematici per bambini sotto i 10 anni. Sono guidati allo studio dell’inglese e gli viene insegnato a dare un nome alle emozioni che provano giocando: per saperle riconoscere, gestire e dominare. Così forse non dovremo aspettare un altro Sinner. Da qualche parte dovrebbe esserci già.
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