Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Era l’estate del 1974, appena diplomato, mi ero innamorato e avevo deciso che mi sarei sposato. I miei genitori erano, leggermente, increduli, ma consapevoli di aver pochi argomenti da opporre, visto che loro lo avevano fatto a poco più di vent’anni e in condizioni, a dir poco, precarie. Avevo detto loro che mi sarei iscritto all’università e, allo stesso tempo, avrei cercato un lavoro. Mi diedi subito da fare e mi rivolsi agli unici due adulti, genitori di altrettanti amici, che pensavo potessero darmi una mano. Non avevo intenzione di chiedere aiuto a mio padre. Fui fortunato, perché uno dei due mi disse che c’era un’opportunità, non certo di lavoro qualificato, d’altronde non avevo titoli, al Formez, il Centro studi della Cassa del Mezzogiorno. Raggiante, lo volli subito comunicare a mio padre.

Ma tu sei pazzo! – il suo commento – ma come, io sto facendo la battaglia per la chiusura della Cassa del Mezzogiorno e tu vuoi andare a lavorare là? Non se ne parla proprio. Pensi che possiamo offrire lo spunto per un titolo di giornale, che possa mettere in dubbio quanto sto facendo per far chiudere un carrozzone?

Rimasi senza parole ma capii perfettamente. Quando raccontai la sua reazione, il padre dei miei amici, che lo conosceva bene, si mise a ridere e mi disse che se lo aspettava.

Lo ringraziai comunque e me ne feci una ragione. Iniziai con qualche lavoretto saltuario e, nel frattempo, il previsto matrimonio andò a farsi benedire, per il venir meno dell’afflato amoroso. Potei, dunque, concentrarmi sugli studi universitari. Avevo scelto Lettere e presentato un piano di studi di soli esami di storia. Bufalini aveva visto giusto. Mi ero buttato con entusiasmo nello studio, con ottimi risultati. Non sono io a dirlo ma fa fede il libretto con i voti. Non ero stato un brillante liceale, complice il movimento studentesco e quell’irresponsabilità, propria dell’adolescenza, che fa relegare i libri in secondo piano, rispetto alle amicizie. Adesso, scoprivo il piacere dello studio, esclusivamente dedicato alla materia che mi aveva sempre appassionato. Ed ero certo che avrei raggiunto l’obiettivo: diventare professore universitario. Ad un certo punto, qualcosa si ruppe. Decisi di rallentare e di guardarmi attorno, fuori dai confini del mondo accademico, che mi aveva ammaliato sino a quel momento. Avevo visto con i miei occhi a quali condizioni di servilismo dovevano ridursi brillanti laureati per entrare nelle grazie del professore ordinario, per ottenere un assegno di ricerca, per poter aspirare a partecipare a un concorso. Una visione deprimente ed io non volevo mettere in vendita la mia dignità.

Forse Bufalini sarà rimasto deluso ma non ne ebbi mai conferma. Fortunatamente, la coincidenza volle che, grazie ad alcuni amici, mi affacciassi sul nascente mondo delle radio private e lì trovassi riparo e conforto dalle delusioni. Cominciai a collaborare a RadioBlu che, di lì a poco, divenne la radio del PCI a Roma. Eravamo riusciti a convincere l’allora giovanissimo responsabile della stampa e propaganda della federazione romana, Walter Veltroni, a comprarla. Di RadioBlu sono stato direttore dal 1979 al 1982.

La mattina di sabato 26 settembre 1981 ero in redazione a preparare la trasmissione, in vista della marcia della pace Perugia-Assisi, che si sarebbe tenuta il giorno dopo. Dovevo passare da casa a fare la borsa e poi partire per Perugia. Nella buca delle lettere mi aspettava la “cartolina precetto”, che mi comunicava che dovevo recarmi, in data 15 settembre, a Salerno per cominciare il corso addestramento reclute. Questo voleva dire che ero arruolato e, per di più, ero in ritardo, passibile di provvedimenti disciplinari. Insomma, vivevo in prima persona il paradosso di chi, pronto a marciare per la pace, si stava apprestando a imparare le arti della guerra.

Il servizio militare mi allontanava da Roma, dove sarei ritornato a metà dicembre. Nel frattempo, mio padre era di nuovo a Palermo. In quei mesi, riuscivamo comunque a vederci. Qualche volta a pranzo o a cena, oppure quando andavo a prenderlo all’aeroporto, se veniva a Roma per gli impegni di parlamentare o di partito. Lo trovavo sempre più convinto della scelta che aveva fatto.

Anche se a mio padre piaceva molto Roma, ed era contento che ci fossimo trasferiti e che ci fossimo ben ambientati, a lui stava stretta. Non era un uomo da salotti, si teneva lontano dagli intrighi di palazzo e da consorterie e comitati d’affari.

All’indomani della sua morte, nel suo unico conto corrente erano depositate poche decine di migliaia di lire.

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