L’intensificazione dei bombardamenti israeliani sul Libano, che fanno numerose vittime; i messaggi inviati dall’Idf alla popolazione che vive al confine sud del Paese dei cedri perché sgomberi; il lancio, da parte di Hezbollah, di razzi e missili in Alta Galilea; le speculari affermazioni dei due fronti sulla “fase nuova della guerra”, rendono le ipotesi di de-escalation nell’area vuote parole. Del resto, il messaggio israeliano è chiaro: «Se Hezbollah non ha ancora capito, capirà», ha affermato il portavoce dell’Idf. Quanto a Netanyahu, è stato assai poco diplomatico: «Cambiare gli equilibri di potere nel Nord» è l’obiettivo.

L’interrogativo, ormai, è se Israele si limiterà a cercare di spingere le gialle bandiere del Partito di Dio oltre il Litani, tentando di ripristinare antiche fasce di sicurezza, oppure punterà a infliggere un colpo durissimo alla formazione di Nasrallah.

Un colpo, dal quale Hezbollah potrà riprendersi solo negli anni, portato con un’azione che si spinga, se necessario, sino alla periferia sud di Beirut, roccaforte del movimento. Non solo mediante una campagna di raid aerei senza precedenti ma senza escludere, come da tradizione militare israeliana sin dalla Guerra dei Sei giorni, che se lo scenario operativo lo consentirà, lo scontro assuma anche caratteri navali, anfibi e terrestri.

Il tutto senza necessariamente replicare la corsa dei Merkava di Sharon su Beirut nel 1982, quando Hezbollah era ancora in incubazione, o l’infruttuosa tattica del 2006 nella guerra dei Trentaquattro giorni, nella quale i missili anticarro del Partito di Dio, fortificato in piccoli gruppi nei villaggi, hanno inflitto gravi perdite ai mezzi corazzati di Tsahal che cercavano di snidare i suoi combattenti.

Il Partito di Dio si trova, dunque, davanti a un bivio. Può “non capire”, restando ancorato alla guerra dei proxies, orchestrata dagli iraniani mandando il prima linea, a sostegno di Hamas, gli alleati Hezbollah e gli Houthi yemeniti, opzione che significa esporsi al concreto rischio della catastrofe militare. Anche se, come già per Hamas, un simile esito non implicherebbe, di per sé, la scomparsa dell’organizzazione.

I movimenti islamonazionalisti, che si battono per l’affermazione della causa islamista e insieme per il ripristino della piena sovranità sul territorio nazionale – nella vicenda libanese la rivendicazione riguarda la piccola area di confine delle fattorie di Shebaa – non sono minuscoli gruppi jihadisti senza legami con la popolazione ma, insieme, partiti politici, confraternite religiose, strutture di welfare islamico. Nel panorama dello stato senza stato libanese, Hezbollah è un architrave del sistema politico confessionalcomunitario, non un gruppuscolo iperminoritario. Anche se battuto sul campo, la sua ideologia, e lo stretto rapporto con la comunità sciita, gli consentirebbe di sopportare una sconfitta presentata come “temporanea”.

Ovviamente non si tratta di un destino indolore. Non a caso, la guerra limitata e d’attrito combattuta sin qui al confine con Israele era per Hezbollah non solo ideologicamente nelle corde ma anche politicamente e militarmente sostenibile.

In questo tipo di conflitto poteva attaccare “l’entità sionista”, salvaguardando prestigio e onore, senza rischiare, nonostante le ingenti perdite subite, un tracollo che ne mettesse in discussione il ruolo nel Paese dei Cedri. Ma la guerra troppo lunga e le scelte israeliane di colpire i vertici dell’organizzazione, hanno assottigliato quei margini di rendita bellica.

Il Partito di Dio è ora di fronte a un classico dilemma tragico. “Non capire”, vuol dire mettere in conto, un drastico ridimensionamento; “capire” e defilarsi – per poterlo fare dovrebbe avere il via libera dell’Iran, alle prese con il medesimo dilemma – può salvare l’organizzazione ma al prezzo di farla apparire una “tigre di carta”. Percezione che metterebbe a rischio non solo il suo prestigio esterno ma anche il suo peso interno.

Solo una duratura tregua a Gaza, gli consentirebbe di sfilarsi onorevolmente dalla gabbia della guerra per conto terzi. Sul versante della guerra della Striscia, però, tutto è immobile.

Così il movimento di Nasrallah è davanti al bivio, sapendo che la strada da scegliere verrà probabilmente decisa da altri. Il tutto in un quadro segnato da un’inconfessabile “paura della paura” che pervade la popolazione sciita libanese, certa di diventare un poco selettivo bersaglio in caso di conflitto aperto. Da questo punto di vista l’operazione terrore senza cavo, il colpire facendo saltare i cercapersone e i walkie talkie, ha ingigantito la sindrome del Nemico che tutto vede, sa, può. È un punto di svolta sul terreno della guerra psicologica, così come lo è la tecnica israeliana dei messaggi che esortano la popolazione a abbandonare le aree di frontiera, usata in precedenza con i palestinesi.

Con le sue scelte Israele ha stretto all’angolo Hezbollah. In un rapido susseguirsi di colpi, che ha avuto come posta il mantenimento dell’iniziativa, il problema, ora, non è più la rappresaglia per le eliminazioni mirate dei quadri del movimento, ma come far fronte alla terza guerra israelo-libanese. In uno scenario in cui né gli Usa, né altre potenze, sono in grado di imporre un ordine, nel quale il conflitto sarà assai più duro di quello di diciotto anni fa, e in cui a muovere per primo le pedine sulla scacchiera sarà Netanyahu.

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