Prendiamo l’Unrwa. È l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente. Operativa dal 1950, dopo l’espulsione di 700mila palestinesi dalle loro terre in seguito alla guerra del 1948, si occupa dei superstiti di quella che gli arabi chiamano “Nakba” (Catastrofe) e dei loro discendenti, circa 5,9 milioni di persone distribuite in 58 campi tra Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Striscia di Gaza.

Gestisce 706 scuole in cui studiano circa 500mila ragazzi, 141 strutture sanitarie per sette milioni di visite annuali. È fondamentale per la sopravvivenza di un popolo intero.

Unrwa al bando

La Knesset, il parlamento israeliano, l’ha messa al bando come «organizzazione terroristica», non potrà svolgere alcuna attività diretta o indiretta «nel territorio sovrano di Israele». E questo perché ha indicato dodici suoi dipendenti come sospettati di essere coinvolti nel massacro del 7 ottobre, mentre secondo l’intelligence delle Stato ebraico il 10 per cento del personale a Gaza ha legami con Hamas o la Jihad islamica: sono, contate all’ingrosso, 1.200 persone.

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha istituito un gruppo di revisione per la verifica di tali assunti, diretto dall’ex ministra degli Esteri francese Catherine Colonna. Lo Stato ebraico non ha mai fornito prove sufficienti per suffragare le accuse né aveva mai sollevato obiezioni, prima della carneficina, sugli effettivi dell’Unrwa, pur conoscendo esattamente l’identità di ciascuno di loro, visto che i dati gli vengono forniti dall’organizzazione onusiana stessa.

A nulla sono servite le proteste arrivate anche da amici, primi fra tutti gli Stati Uniti, Benjamin Netanyahu ha tirato dritto come è solito fare ed è evidente che sarà assai difficile per l’Unrwa operare, oltre che sul “territorio sovrano” d’Israele, a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, nell’area tutta infiammata com’è da più guerre contemporaneamente.

Il che significherà privare dei servizi minimi indispensabili milioni di rifugiati, molti dei quali altro non hanno conosciuto nella loro vita se non l’esistenza nei campi profughi. La conseguenza di un conflitto che ha già coinvolto al minimo quattro generazioni.

Il doppio standard

Questa nuova e clamorosa svolta è il pretesto per riflettere su un doppio standard che si è andato consolidando negli atteggiamenti della democrazia israeliana che si pregia di essere l’unica del Medio Oriente.

Una democrazia che per gli ebrei israeliani funziona, e ne sono la prova le numerose manifestazioni di dissenso che hanno preceduto il 7 ottobre per il tentativo dell’esecutivo di mettere il potere giudiziario sotto il controllo del governo e sono proseguite dopo quella data fatidica, avendo come tema centrale gli sforzi (mai fatti a sufficienza) per la liberazione degli ostaggi. Oppure la stampa libera di criticare il potere assai più, per paradosso, che in altri Paesi dell’occidente.

Se vale un ricordo personale. All’epoca di Ariel Sharon dominante, una sua conferenza stampa venne oscurata da un’autorità di controllo perché doveva trattare solo dei processi in cui era coinvolto, mentre si era lanciato in accuse contro il suo avversario nelle vicine elezioni: un esempio di rispetto assoluto della par condicio senza guardare in faccia a nessuno.

Funziona diversamente non solo per gli arabo-israeliani, da molti considerati una quinta colonna, ma soprattutto per i vicini. I diritti umani che tanto sono difesi in patria vengono calpestati oltre confine in nome di un sovraesteso senso della sicurezza.

Un sentimento largamente condiviso dalla popolazione che approva a stragrande maggioranza il massacro in atto a Gaza e l’invasione del Libano e per nulla si cura delle decine di migliaia di vittime innocenti. Ne è prova il crescente consenso per il premier Netanyahu, che era sceso ai minimi storici prima di recuperare grazie alla postura bellicista senza se e senza ma.

Ma uno Stato democratico si può definire tale se i valori su cui si basa non si arrestano ai confini.

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