Il collaboratore di giustizia riavvolse il nastro della sua vita in un continuo, spesso tormentato flash-back, richiamando alla memoria per quattro mesi fatti, episodi, avvenimenti, riempiendo 329 pagine di verbali, scritti a mano da Falcone, senza che nulla trapelasse all’esterno
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore
Tommaso Buscetta è stato il collaboratore per noi più importante, dicevo, perché ha svelato, con dovizia di riferimenti sempre riscontrati, i segreti di Cosa nostra. Perché i “valori” non erano più quelli di una volta, quelli in cui lui aveva creduto, ormai era diventata una comune organizzazione criminale. In particolare, sin dal primo interrogatorio ha dichiarato, e lo ha poi sempre ribadito: “Non sono un pentito. Non sono una spia né un informatore, né un criminale che prova piacere a infrangere le leggi e sfruttare gli altri”.
Nell’appunto che consegnò a Falcone il giorno del loro primo incontro c’era scritto: “Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la giustizia senza pretendere sconti né abbuoni di qualsiasi tipo (allora la legge sui pentiti non esisteva ancora, ndr).
Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano”.
Parole impegnative di un mafioso che aveva uno spessore criminale importante e che, nonostante non avesse mai assunto ruoli apicali in Cosa nostra, godeva di grande rispetto nell’ambito dell’organizzazione. Anche in carcere era tenuto in grande considerazione, tanto che qualcuno era sempre pronto a preparargli il caffè e, quando era detenuto all’Ucciardone a Palermo, i suoi pasti arrivavano dai migliori ristoranti della città. Era uno che non aveva bisogno di alzare la voce per farsi sentire. A questo proposito, ricordo che a Giovanni Falcone, che per tre volte si era lamentato del disturbo arrecato da agenti della Questura di Roma dove si svolgeva l’interrogatorio, Buscetta fece notare con sentito rispetto che, in un caso simile, a un “uomo d’onore” di “peso” sarebbe bastato lamentarsi solo la prima volta e senza alzare la voce.
Don Masino era dotato di grande intuito e, durante la sua visita a Palermo che precedette lo scoppio della seconda guerra di mafia, si rese conto che qualcosa non andava, che il fuoco covava sotto la cenere. Tuttavia non capì subito la pericolosità dei “Corleonesi” e rimase perplesso di fronte agli omicidi eccellenti del 1979 che interrompevano una situazione di quiete che faceva molto comodo a Cosa nostra. Come già Tano Badalamenti, Buscetta pensava che “Cosa nostra non deve fare la guerra allo Stato”. Con lo Stato si convive, si cerca di approfittare delle sue debolezze, a volte tocca anche andare in galera, ma il quieto vivere porta business alla mafia. Anche per questo i sequestri di persona a un certo punto non furono più effettuati in Sicilia. Creavano allarme sociale, e soprattutto attiravano l’“attenzione” delle forze dell’ordine e della magistratura.
Buscetta, che assistette da lontano al massacro dei suoi parenti e amici, collaborò perché voleva salvare se stesso e quello che rimaneva della sua famiglia, e perché riteneva di avere trovato in Giovanni Falcone un magistrato di cui fidarsi. Quando venne arrestato in Brasile ed estradato in Italia, in aereo, dove rischiò di morire per la stricnina ingerita nel tentativo di uccidersi, ebbe modo di apprezzare la professionalità del dottor Gianni De Gennaro, che aveva curato la sua traduzione. Ma fu nel primo incontro con Falcone che gli fu posta una domanda alla quale Buscetta obiettò che ci sarebbe voluto molto tempo per rispondere.
Era il segnale che Giovanni colse al volo.
Il 16 luglio 1984 Tommaso Buscetta, presenti il pubblico ministero Vincenzo Geraci e il vice-questore Gianni De Gennaro, siede davanti il giudice istruttore Giovanni Falcone. Gli ribadisce la sua volontà di collaborare, ma con una premessa: “L’avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”
E la deposizione ebbe inizio.
Il collaboratore di giustizia riavvolse il nastro della sua vita in un continuo, spesso tormentato flash-back, richiamando alla memoria per quattro mesi fatti, episodi, avvenimenti, riempiendo 329 pagine di verbali, scritti a mano da Falcone, senza che nulla trapelasse all’esterno. Due sedute quotidiane, un fiume di parole e un uomo, Buscetta, che aveva scelto Falcone come suo punto di riferimento,
nonostante si rendesse conto degli ostacoli che avremmo potuto incontrare nel dare seguito alle sue dichiarazioni.
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