La proposta di legge La Torre prevedeva l’inserimento nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, riferito al reato di associazione mafiosa, punibile con una pena da tre a sei anni, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza dagli incarichi civili, consentiva le indagini patrimoniali e, soprattutto, l’obbligatoria confisca dei beni, riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco
Appena eletto in parlamento, nel maggio del 1972, mio padre entra a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.
La Commissione era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia, e pubblicò il suo rapporto finale nel 1976.
Insieme a Cesare Terranova, magistrato impegnato nella lotta alla mafia, candidato ed eletto, come indipendente, nelle liste del Pci, mio padre redasse e sottoscrisse, come primo firmatario, la relazione di minoranza che metteva in luce quanto era rimasto in ombra nella relazione di maggioranza, i legami tra mafia e politica, in particolare nella Democrazia Cristiana ma non solo, facendo i nomi di importanti uomini politici dei diversi partiti che avevano favorito boss ricevendo in cambio sostegno e vantaggi. Alla relazione aggiunse la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e ad introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.
La proposta segnava una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’inserimento nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, riferito al reato di associazione mafiosa, punibile con una pena da tre a sei anni, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza dagli incarichi civili, consentiva le indagini patrimoniali e, soprattutto, l’obbligatoria confisca dei beni, riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Cesare Terranova, alla fine della legislatura, tornò a fare il magistrato, forte dell’esperienza maturata in Parlamento, che ne aveva, ulteriormente, affinato le capacità. La mafia non poteva sopportare che un magistrato che le aveva fatto la guerra tornasse a combatterla più forte di prima. Lo uccise il 25 settembre 1979, insieme al Maresciallo di pubblica sicurezza Lenin Mancuso.
Pio La Torre aveva una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere, che definiva un fenomeno di classi dirigenti. Era conscio delle sue trasformazioni, dal- la mafia agricola e del latifondo, combattuta negli anni della gioventù, alla mafia urbana e dell’edilizia che, per mezzo di appalti pilotati, grazie alle connivenze con le dirigenze politiche locali, perpetrò il cosiddetto “Sacco di Palermo”, fino alla mafia imprenditrice che, avendo accumulato enormi capitali con il traffico internazionale di droga, aveva stretto indicibili alleanze col mondo dell’alta finanza.
Non aveva paura di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici. Famosi i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano dall’ottobre 1970 all’aprile 1971; in pratica signore incontrastato degli affari politico-criminali, che misero in ginocchio una città, che fa ancora fatica a rialzarsi. Come bisognerebbe rileggere quello che scrisse nella relazione di minoranza su Salvo Lima, Giovanni Gioia e Giovanni Matta, esponenti di primo piano del sistema di potere, che legava a Cosa nostra le correnti della Dc palermitana, facenti capo ad Amintore Fanfani e Giulio Andreotti.
Dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che [la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)... La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti.
Nel 1981 Pio La Torre decide di tornare in Sicilia, in un momento storico in cui la strategia mafiosa di intimidazione dei rappresentanti più impegnati nell’azione di contrasto da parte dello Stato contro la mafia toccava l’apice della sua azione violenta e sanguinaria.
Negli anni precedenti erano stati uccisi illustri uomini dello Stato, politici e delle forze dell’ordine, come il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977), il segretario provinciale della Dc Michele Reina (9 marzo 1979), il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (21 luglio 1979), il giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980) e il procuratore della Repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980). In quel momento Pio La Torre sente che il suo posto è in Sicilia e, nel 1981, succede a Gianni Parisi nella carica di segretario regionale del Pci.
Immediatamente, ritornato in Sicilia, come se non bastasse, si lancia in un’altra battaglia, quella contro l’installazione dei missili Nato nella base militare di Comiso.
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