Per decenni le donne sono state escluse da molte professioni e pagate meno. Prima degli anni ‘60 alcune si sposavano in segreto, rinunciavano alle nozze o mentivano dicendo di essere sterili perché potevano essere licenziate in caso di matrimonio. Già nel 1951 la senatrice Angelina Merlin – nota per la legge che ha disciplinato la prostituzione – aveva proposto una norma per vietare il licenziamento delle donne che decidevano di sposarsi. Ma l’intenzione di Merlin è stata soddisfatta solo anni dopo, il 9 gennaio 1963, con la legge «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio».

Negli anni, le possibilità di accesso al mercato del lavoro per le donne si sono moltiplicate, anche se a un ritmo troppo lento. Secondo i dati Eurostat, il tasso di occupazione femminile italiano dal 2013 al 2022 è aumentato di circa sei punti, ma si attesta tra i più bassi d’Europa, con il 55 per cento di donne impiegate. Il dato italiano è secondo solo alla Turchia (37 per cento), inferiore di oltre dieci punti rispetto alla media europea (69,2 per cento) e lontanissimo dall’80,4 per cento dell’Estonia o dal 79,1 per cento della Svezia.

Lavoro di cura

Nonostante oggi le donne non possano essere licenziate quando si sposano, la famiglia rimane il principale fattore che le porta ad abbandonare il proprio lavoro. Una donna su cinque, infatti, fuoriesce dal mercato dopo che diventa madre. Secondo il dossier della Camera L’occupazione femminile (dicembre 2023), «la decisione di lasciare il lavoro è determinata per oltre la metà, il 52 per cento, da esigenze di conciliazione» della vita lavorativa con quella familiare.

Il problema però non è la famiglia in sé perché questo fenomeno riguarda in modo diverso le donne e gli uomini neogenitori. Se da un lato le madri vengono penalizzate, i padri hanno un tasso di occupazione più elevato di quasi dieci punti rispetto a quelli che non hanno figli (dati Openpolis).

Il ruolo degli asili

In molti casi le donne si trovano davanti l’impossibilità di tornare al lavoro perché le strutture di sostegno alla prima infanzia sono scarse ed economicamente inaccessibili. In Italia ci sono in media 30,9 posti ogni cento bambini sotto i tre anni, un dato inferiore di quasi quindici punti rispetto all’obiettivo stabilito dal consiglio europeo (45 per cento da raggiungere entro il 2030).

La situazione nazionale non è uniforme, al contrario persiste un ampio divario a sfavore del Mezzogiorno e dei comuni più piccoli, anche se nemmeno le regioni virtuose raggiungono l’obiettivo europeo. Al nord e nel centro la percentuale di posti oscilla tra il 30,8 e il 36,1 per cento, mentre nel sud e nelle isole si registrano appena il 15,2 e il 15,9 per cento (dati Istat). E anche se si riesce a trovare posto in un asilo non lontano da casa non è detto che la retta sia sostenibile: a Milano in media il costo di un nido privato è pari a 812 euro al mese. Esistono agevolazioni per chi ha un Isee più basso, ma solo il 9,4 per cento delle strutture italiane prevede l’esenzione totale della retta.

I numeri in Europa

Ci sono però paesi in Europa che l’obiettivo del 45 per cento l’hanno superato da dieci anni. Nei Paesi Bassi, ad esempio, ci sono 72,3 posti ogni 100 bambini in età 0-2. Ma anche Francia, Lussemburgo, Svezia, Belgio e molti altri distaccano l’Italia di oltre venti punti. Non ovunque le strutture per la prima infanzia sono economicamente accessibili. Nei Paesi Bassi il costo può raggiungere l’80 per cento del reddito medio femminile. Ma, grazie a un piano di interventi che il governo intende realizzare nel 2025, per i genitori a basso reddito la percentuale scenderà al quattro per cento.In Svezia, la tariffa massima al mese per il primo figlio non è lontanamente paragonabile a quella milanese: 1.572 corone svedesi, pari a circa 135 euro.

I benefici degli asili erano stati quantificati dal premio Nobel James Heckman, secondo cui per ogni euro investito in servizi per l’infanzia di qualità ritornano indietro a tutti tredici euro. I vantaggi non riguardano solo le madri, ma l’intera società perché si genera un circolo virtuoso: le donne che lavorano favoriscono l’economia del paese e l’aumento dei nidi prevede la creazione di nuovi posti di lavoro.

Anche i congedi di paternità favoriscono il reinserimento lavorativo delle madri, oltre a una più equa suddivisione del lavoro di cura. In Italia il congedo di paternità prevede un periodo di astensione dal lavoro di dieci giorni.

Ma, di nuovo, il quadro italiano non è paragonabile a quello delle eccellenze europee. La Svezia è stato il primo paese a introdurre ormai cinquant’anni fa 180 giorni di congedo parentale finanziato dallo stato e fruibile da entrambi i genitori. Negli anni il numero dei giorni è aumentato, arrivando ai 480 di oggi. E l’introduzione di questo sostegno è andata di pari passo con un cambiamento non solo lavorativo, ma anche culturale.

Nel 1974, i padri prendevano appena lo 0,5 per cento del periodo di congedo. Nel 1995, poi, si è stabilito che trenta giorni fossero riservati a ogni genitore. Quei trenta giorni sono diventati sessanta nel 2002 e novanta nel 2016. Oggi il congedo parentale fruito dagli uomini si aggira intorno al trenta per cento e beneficia di questa misura l’82 per cento dei padri, rendendo la Svezia il paese in cui gli uomini utilizzano la più alta percentuale di congedi sovvenzionati dallo stato in Unione europea. È la dimostrazione che con gli incentivi giusti qualcosa – anche nella mentalità – davvero può cambiare.

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