In quegli anni, la formazione politica di Pio La Torre si svolse sui banchi di scuola del partito e del sindacato. Frequentò i corsi del Pci a Frattocchie, vicino a Roma, mentre mia madre frequentava la scuola per le donne comuniste sul lago di Como. L’impegno nel sindacato divenne prevalente quando assunse la responsabilità di segretario della Camera del Lavoro di Palermo e si concluse, all’inizio degli anni Sessanta, con quella di segretario regionale della Cgil
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco
Nel ’52, venne eletto segretario della Camera confederale del Lavoro di Palermo e promosse e organizzò una massiccia raccolta di firme di adesione alla campagna universale a favore dell’appello di Stoccolma, lanciata dal movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Il suo impegno pacifista – che lo vide tra i protagonisti del movimento europeo contro l’installazione delle testate nucleari del Patto di Varsavia e della Nato, in particolare a Comiso, in provincia di Ragusa, una volta tornato in Sicilia nel 1981 – aveva radici lontane ed era coerente con la sua visione della politica.
Dopo pochi mesi, fu candidato ed eletto al Consiglio comunale di Palermo, dove resterà fino al 1962. Furono gli anni in cui condusse le sue battaglie contro l’intreccio di potere politico-mafioso che aveva messo le mani sulla città. Erano gli anni della speculazione edilizia, del sacco di Palermo, che hanno segnato malamente il volto della città.
I suoi interventi al Consiglio comunale aiutano a capire quello che succedeva e quello che sarebbe successo; chi favorì e chi si oppose a quel grumo di interessi politici e criminali, che faceva esplodere le ville liberty su viale della Libertà per costruire, al loro posto, moderne palazzine; chi si accaparrava gli appalti pubblici, razziava le imprese private, esercitava un controllo pervasivo del territorio e riuniva i suoi vertici negli alberghi di lusso della città.
In quegli anni, la formazione politica di Pio La Torre si svolse sui banchi di scuola del partito e del sindacato. Frequentò i corsi del Pci a Frattocchie, vicino a Roma, mentre mia madre frequentava la scuola per le donne comuniste sul lago di Como. L’impegno nel sindacato divenne prevalente quando assunse la responsabilità di segretario della Camera del Lavoro di Palermo e si concluse, all’inizio degli anni Sessanta, con quella di segretario regionale della Cgil.
Animatore d’iniziative popolari e di massa, efficace oratore e dirigente dalle riconosciute doti organizzative, cui si affiancava quella di saper come valorizzare i quadri giovanili, promotore del radicamento del partito in città – attraverso un costante dialogo, fatto anche di vendita de l’Unità porta a porta –, mio padre viveva la politica non solo con grande passione, ma con forte identificazione. Il partito, ripeteva, era la sua seconda famiglia, che lo aveva accolto, quando aveva dovuto lasciare la casa paterna.
Aveva indirizzato la sua voglia di impegnarsi nelle lotte per il riscatto della sua terra dallo sfruttamento e dall’oppressione. Aveva intuito e valorizzato le sue doti, dando a Pio gli strumenti che gli avrebbero consentito, in breve tempo, di diventare un dirigente politico. Certo, come accade in tutte le famiglie degne di questo nome, ci sono stati i momenti buoni e quelli meno buoni. Una volta, ridendo, mi raccontò di un dialogo ironico e scherzoso, tra lui e un suo collega deputato repubblicano, che rammento pressappoco così:
Vedi, invidio voi repubblicani, siete fortunati di appartenere a un piccolo partito, con pochi iscritti, perché in un grande partito di massa, ci puoi trovare una gran massa di stronzi.
Se sia stato un padre poco presente, che sacrificava la famiglia e i sentimenti alla politica, ne abbiamo parlato spessoio e mio fratello e abbiamo concluso che no. Non ci siamo mai sentiti trascurati, anzi lo abbiamo sentito sempre vicino. Non ricordo di circostanze nelle quali avessi notato la sua assenza. Dai banchi del Consiglio comunale denunciava il malgoverno e le malefatte della giunta che amministrava Palermo, è composta da democristiani, monarchici e liberali, con l’appoggio esterno del Movimento sociale, e metteva in luce il ruolo esercitato dal Presidente della Regione Franco Restivo, che rimase al governo della Sicilia, ininterrottamente, per sette anni, dal ’48 al ’55, dandovi un’impronta conservatrice e reazionaria.
Mio padre lo descrive così: Restivo era un “grande corruttore”. Egli amava apparire un politico giolittiano. Io penso che egli, personalmente, non fosse un profittatore, anzi, da abile politico sapeva che questo gli doveva essere negato. Era un uomo politico accorto e avveduto ma al servizio di un disegno pesantemente conservatore che si esaurì con i governi da lui presieduti.
Egli risorge molti anni dopo in una funzione diversa, a livello nazionale, come ministro dell’Interno. Ma anche qui permangono ombre spaventose sulla sua figura: da come si atteggiò per Piazza Fontana sino ai fatti di Reggio Calabria. Credo che la sua morte abbia impedito che si facesse piena luce.
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