Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Autostrada A29 Palermo-Mazara del Vallo. Altezza dello svincolo per Capaci L’Italia è nel caos.

Il governo è precario, in Parlamento non si riesce a scegliere il nuovo capo dello Stato. La Dc preme per Giulio Andreotti, gli altri partiti chiedono una soluzione più istituzionale, come i presidenti delle due Camere, Giovanni Spadolini o Oscar Luigi Scalfaro.

Qualcuno dice: «Se si dovesse fare un colpo di stato, sarebbe il momento giusto». All’Ucciardone si sposa Nino Madonia, il figlio minore del vecchio Don Ciccio Madonia, il mandante dell’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi. Arriva una telefonata al «Giornale di Sicilia» e annuncia un «regalo di nozze speciale per lui». C’è grande eccitazione, tra gli sportivi: la Juventus ha già fatto il primo colpo di calciomercato, e ha acquistato dalla Sampdoria il bomber Gianluca Vialli.

Le famiglie mafiose di Agrigento si riuniscono: sono preoccupate. C’è un ragazzo di vent’anni, un picciotto che, dopo essere stato arrestato per la strage di Racalmuto del 23 luglio 1991, ha deciso di pentirsi, perché gli hanno promesso che se collabora gli fanno rivedere la fidanzatina.

Bisogna fare qualcosa, presto, suggerisce qualcuno. Da domani avremo altre cose di cui preoccuparci, lo stoppano. Domenica di lavoro per gli autori de La Piovra 6. Ultimi ritocchi al montaggio dello sceneggiato di grande successo, che va in onda su Rai 1. Gli sceneggiatori commentano: «Non riusciremo mai a stare dietro la realtà». I sismografi dell’osservatorio geofisico di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento, alle ore 17:56 percepiscono una scossa tellurica. Nello stesso momento Salvatore Gambino, trent’anni, percorre con l’auto un ponte vicino Palermo, che dà sull’autostrada.

Improvvisamente, vede un’esplosione, una fumata, e una specie di lava uscire dall’asfalto. Racconterà: «Sembrava l’Etna». Nel tardo pomeriggio, sempre all’Ucciardone, davanti ai tv color delle celle, molti detenuti si lasciano andare a un applauso liberatorio. E a parte questo, nessuno si fece male.

Dopo la strage

Dopo il fatto di Capaci tutto accelera. Noi non lo sappiamo, e neanche abbiamo il modo di interrogarci. Siamo presi da una scossa di adrenalina collettiva, che a descriverla è difficile: qualcosa di orgiastico, roba che mai avevamo provato in vita nostra.

Tutti i giornali parlavano di Capaci, della potentissima e spietatissima Cosa nostra, tutti piangevano il dottore Falcone, e i primi erano proprio quelli che in vita ci avevano tanto aiutato delegittimandolo giorno dopo giorno, isolandolo, preparandoci il terreno. Addirittura si parlava di quello che era successo in Sicilia anche all’estero: Frontline judge murdered by the mafia, Masacre en Sicilia, Massacre à Palerme, Le juge Falcone assassiné, Die sizilianische Mafia erklärt dem Staat den Krieg.

In Italia, invece, i giornali sembravano fare gara a chi la sparava più grossa: «Il segnale della bomba è partito da un aereo», «in campo almeno cinquanta uomini», «la strage è costata alla mafia almeno due miliardi». Si notava l’intenzione di offrire al pubblico la degustazione dell’esattezza, facendo fuori fino agli ultimi avanzi dell’evento, attribuendo subito colpe e responsabilità.

Nessuno, però, parlava di noi, e questo ci sembrava ancora più incredibile. Avremmo voluto uscire allo scoperto e gridare al mondo: siamo noi! Noi siamo stati! Venite qui a prenderci! Passeggiamo alla luce del sole, Matteo un si scanta! È lui l’imperatore! Ma questa provincia nostra di Trapani, il Belice, Mazara, Alcamo, faceva notizia solo per i terremoti, mica per la mafia.

Volevamo investire il mondo con la nostra guerra, come un contagio che si prende nelle vie, nell’aria che si respira. Volevamo essere un nemico terribile, senza confini e senza volto. E fu in questo clima che cercammo di rivederci, anche se era difficile, perché c’erano sbirri per le strade, e qualcuno a Roma e a Palermo aveva cominciato a dire «adesso facciamo sul serio», senza ridere sotto i baffi come era stato fatto negli ultimi cinquanta anni.

E c’era anche chi stava cominciando a capire che non poteva vincere questa partita stando sugli spalti come aveva sempre fatto. E Matteo organizzò un altro incontro; non eravamo tanti, ma quelli necessari. Quelle persone che hanno fatto queste scelte di vita contro di noi le sapevano le conseguenze – era il nostro commento – e come ci piace il dolce, ci deve piacere anche l’amaro.

C’era da portare a termine un compito, tutto il resto non ci interessava. Il signor Totuccio si fermò pochissimo con noi; aveva gli occhi che gli facevano pupi pupi per una stanchezza quasi onirica e disse due cose che ci furono subito chiare, sottolineate dal silenzio di Matteo, che lo lasciava fare.

La prima era: Ci vuole un altro colpetto. Insomma, eravamo nel mezzo del più grande incendio scatenato in Italia negli ultimi cinquanta anni, avevamo ancora le taniche di benzina in mano, e volevamo continuare. Bisogna muoversi, aggiunse.

Il ricordo andò a Leoluca Bagarella, che era quello che si accaniva con i cadaveri, che spesso dovevamo fermarlo mentre a uno già morto lui continuava a dare calci o spararci, con grande spreco di munizioni e di pazienza nostra. Ma noi adesso volevamo la stessa cosa.

Lo stato era a terra, ma bisognava continuare a colpire. Alla corleonese. Come quando facevamo qualcuno, e poi gli uccidevamo i parenti, e poi davamo fuoco alle case e all’azienda, ai mezzi, perché di lui non restasse memoria.

Noi volevamo che dello stato non restasse memoria. Non volevamo fare la storia, la volevamo cancellare. Ed essere poi noi, la storia. La seconda cosa che ci disse era la premessa della prima, nell’ordine di ragionamento contorto che Riina aveva, e che ci rendeva difficile comprenderlo ogni volta. Ed era: Ci cercano.

I più ingenui pensarono agli sbirri, a qualche nuovo super procuratore antimafia di staminchia, a un alto commissario, un prefetto di ferro, un poliziotto di acciaio, i carabinieri, i falchi, pure la forestale, il dottore Borsellino, gli altri dottori, quelli del nord, la Nato, i servizi segreti, l’Onu, Cgil, Cisl e Uil. Chi ci cerca? Io tratto solo cose e persone importanti, aggiungeva. Matteo aveva capito, e poi ci spiegò. A modo suo. Anche lui disse solamente: Ci cercano. Non come chi ha paura, ma come chi è desiderato. Ci cercano. […].

Aveva fretta, il dottore Paolo Borsellino. Lo diceva a tutti: devo fare in fretta. Venne la fretta anche a noi. Dovevamo ucciderlo. Per quello che aveva fatto. Per quello che ancora voleva fare. Voleva indagare sulla morte del dottore Giovanni Falcone, voleva portare avanti le indagini sugli appalti.

Falcone fu ucciso per vendetta. Borsellino fu ucciso anche lui per vendetta, ma anche a scopo preventivo. Perché avevamo imparato la lezione. Perché dovevamo continuare a fare la guerra per poi fare la pace. E il dottore Borsellino si era messo in mezzo. […].

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