Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


In una bella città di provincia partecipai ad un succulento simposio, cioè uno di quei banchetti che di solito si celebrano al termine di un trattenimento culturale. Discusso il tema, quello che sia: «La donna nella società moderna» oppure «Criminalità e pena di morte», le opinioni si appacificano attorno ad una grande tavola, al vertice della quale di solito si siede, un po’ febbricitante di successo, il relatore ufficiale, alla sua sinistra il presidente del sodalizio, alla sua destra il vescovo in bell’abito nero, quindi parlamentari, grandi cimici, professori di università e altissimi ufficiali, tutti con gentili signore che, essendo mogli di persone a riconosciuto livello di potenza, sono quasi sempre amabilmente anziane e dunque decorosamente impupate.

Io non ho niente contro i simposi, ma mi fanno ridere, mi sembrano recitazioni organizzate nel corso delle quali ognuno viene chiamato a truccarsi da personaggio e stare in scena secondo un copione mondano. C’è da dire che io non so nemmeno recitare. Via via che il simposio procede ed il vini si rarefanno, si tira qualche pallina di mollica, il vescovo fa un brindisi delicato e, in attesa del caffè, le conversazioni si frantumano fra gruppi di convitati i quali probabilmente stanno insieme per la prima volta e quindi si raccontano a vicenda cose iperboliche.

Essendo io, in quel frangente, accanto ad un gruppo di alti ufficiali, narrai di me avventure giornalistiche da Marco Polo, ed ognuno di quegli alti ufficiali riferì un episodio eroico: chi aveva silurato una corazzata nemica, chi aveva abbattuto un quadrimotore a fucilate, chi espugnato un carro armato con una bottiglia di benzina. Indi si parlò di cultura, beneficenza, donne e infine teatro, e io chiesi alle gentili signore quali spettacoli avessero avuto modo di godere o disistimare nel corso della stagione teatrale a Catania.

Nessuna era stata a teatro ed io rimasi molto impacciato, mormorai fatuamente: «Beh, in fondo il teatro è una sciocchezza, meglio gli sceneggiati in televisione!» , ma uno di quegli ufficiali alzò un dito perentorio: «No, no! Il teatro è bellissimo! Ma chi ci viene a Catania?» «Signor colonnello, appena un’ora di strada…».

La signora del colonnello fece un piccolo gesto tremebondo: «Dio ne liberi di Catania!» E poiché in quel momento io dovevo avere una faccia da ebete, il colonnello spiegò: «Abbiamo paura!» Era un ufficiale pluridecorato, aveva al suo comando centinaia di uomini con cannoni e mitragliatrici, ma continuò: «Anzitutto il traffico! Appena ci entri nel mezzo non puoi né parcheggiare e nemmeno fermarti, ti suonano davanti e dietro, ti superano da destra, da sinistra, dal marciapiede, qualche volta ti trascinano in direzione opposta alla tua, e guai se rallenti, se protesti con un sorriso, se ti fermi a chiedere un’informazione, ti insultano, ti tamponano, picchiano pugni sul cofano e sulla capote… Un mio collega colonnello venne addirittura schiaffeggiato da un’auto all’altra…!»

Un altro ufficiale continuò: «Quando riesci a parcheggiare sono trascorse già non meno di due ore, e da quell’attimo comincia il peggio con tutta una nuova serie di eventualità: furto dell’auto o semplicemente scasso della stessa con asportazione di tergicristalli, fari, paraurti, sterzo, libretto di circolazione, scippo della borsetta o della collana, borseggio del portafogli, bomba sotto la poltrona al teatro o cinema, rapina con sparatoria e proiettili vaganti, finto incidente stradale all’uscita della città con scippo folgorante di borsa, valigetta, occhiali ombrello, ed ancora regolamento di conti con duplice omicidio in una strada del centro, inseguimento di volanti e mostruoso tamponamento del forestiero…».

La signora alzò dolcissimamente una mano e concluse: «E tutto questo per andare a teatro?» Il brano che precede può sembrare una invenzione letteraria, ma nella realtà, parola più, parola meno, fu proprio questo il discorso che mi venne fatto ed al quale furono solidali tutti, compresa una morbida signorina francese, di nome Marie, bionda, due stupendi occhi azzurri, operatrice turistica da tre anni in Sicilia. Disse: «Io debbo andare in aeroporto due volte la settimana.

Finestrini chiusi, sportelli chiusi a chiave dall’interno; attraverso la città senza fermarmi un minu to, prendere un caffè, comperare un giornale, senza nemmeno guardare quello che accade, sempre la stessa strada nel più breve tempo possibile e con l’angoscia che improvvisamente mi possa scoppiare una ruota. Morirei di paura»

Ecco: il concetto che centinaia di migliaia di persone abitanti nelle città e province limitrofe hanno di Catania, è questo! Una città che fa paura! Fanno paura la velocità ossessiva della vita, la rapacità, l’imbroglio l’incombenza continua della truffa, il denaro falso, l’aggressività, la sporcizia, il caos del traffico, la presenza continua del ladro, la fulmineità dello scippo, la prepotenza, la violenza, le banche presidiate dai poliziotti privati con le divise da sceriffo, la radio portatile e il mitra a canna corta, le squadre antirapina, le squadre dei «falchi» unica istituzione in Italia) con i giubbotti di pelle nera e le motociclette giganti.

Un distinto signore che vive nella sua cittadina, ossequiato, salutato e quindi rispettato e protetto anche da colui al quale usa socialmente sopercheria, questo galantuomo che al suo paese è certamente qualcuno, arrivando a Catania perde qualsiasi connotato, diventa nessuno, può essere aggredito, scippato, derubato, inseguito come qualsiasi altro, e se protesta viene preso anche a schiaffi e redarguito.

Catania ha tutto o quasi tutto: cinema, teatri, night, ristoranti, negozi di lusso, cliniche di prim’ordine, l’aeroporto, il mare, ma qualsiasi galantuomo siracusano, ennese, ragusano, messinese, se proprio non può farne a meno preferisce non venirci. Perché Catania è violenta? In proporzione al suo habitat umano e sociale, più violenta di Palermo, Napoli, Roma, Milano, Torino che pure sono diventate città sempre più insanguinate.

Perché a Catania la violenza è totale, cioè non è soltanto l’assassinio fra gruppi rivali, la sparatoria improvvisa, i cadaveri in mezzo alla strada, ma ogni altro tipo di violenza possibile, il furto dell’auto, lo scippo, la truffa, l’imbroglio, i soldi falsi, l’arroganza, la perentorietà, il sarcasmo, la sensazione che alcune antiche regole borghesi della vita comune siano state cancellate per sempre e che governi invece una regola di vita che ha tre componenti essenziali: il potere politico, la ricchezza, la violenza.

Chi è fuori da queste tre forze umane non trova posto! Non riesce a vivere! Catania è una città che non rassomiglia ad alcun’altra. È sporca e rissosa come Napoli ma non ha quella quieta rassegnazione che spesso risolve in scherzo musicale e canoro i tormenti dell’anima.

Catania è caotica e corruttibile come Palermo ma non possiede quella regale malinconia, anzi spesso si sfoga in una risata di disprezzo. Catania è alacre e affannata come Milano, ma la sua capacità di lavoro si trasforma sempre, e spesso si annienta, in una continua voracità individuale.

Catania ama la buona tavola come Roma, ed è altrettanto ridente e sfottente, ma il suo scherno non è mai alterigia nei confronti del forestiero, ma quasi sempre rapacità. Catania ha tre anime, questa è la verità, l’una diversa dall’altra, tutte e tre coesistenti ed estranee. In realtà negli ultimi cinquant’anni questa città ha rappresentato l’approdo per migliaia, decine e centinaia di migliaia di forestieri.

Le sue enormi capacità commerciali, la fama della sua università, il fascino stesso della sua allegria hanno attirato una moltitudine di forestieri dalle province dell’oriente siciliano. Intere famiglie che vendevano casa e terre per seguire i figli negli studi, una folla di studenti che giunti alla laurea decidevano fanaticamente di restare comunque a Catania per cercare lavoro, un’infinità di commercianti che smontavano il loro piccolo esercizio economico di paese per impiantarlo comunque in un quartiere catanese, una folla di professionisti avidi che arrivavano per aprire i loro studi di avvocati, ingegneri, medici, Catania era la sede preferenziale per professori di liceo e maestri elementari, ufficiali di presidio, grossisti, rappresentanti di commercio, bancari, impiegati e funzionari dello Stato.

Erano quasi sempre individui giovani e quindi forti, pazienti, animati da una straordinaria capacità di lavoro, da una inesauribile sete di guadagno, quasi tutti venivano per giocarsi la loro partita esistenziale e quindi erano anche intelligenti, preparati, avidi. Se fate una breve indagine in qualsiasi banca, ufficio, scuola, istituto, palazzo vi renderete conto che il cinquanta per cento sono immigrati dalla provincia.

Lentamente, fatalmente, essendo borghesi di una certa forza professionale e culturale, si sono impadroniti della città e comunque l’hanno trasformata come loro conveniva, i servizi, le strade, i palazzi, l’urbanistica, le scuole, le presidenze, le direzioni, i posti di potere, le grandi imprese, i finanziamenti, gli appalti, i primariati, le ville, i villaggi residenziali, i campi da tennis, le piscine, le zone residenziali sui lungomari. Intendiamoci.

Questa moltitudine non snaturava la fisionomia antica del catanese, il suo dialetto, l’antico sarcasmo, il folklore mentale, poiché chiunque arrivasse a Catania cominciava ad impadronirsene materialmente ma veniva a sua volta conquistato mentalmente, imparava subito a parlare con una voce di naso, diventava a sua volta arrogante e sfottente, acquisiva sveltezza, ironia, spirito, mariuoleria. Affinava insomma la parlata e l’intelligenza al gusto catanese.

Mentre tutto questo però accadeva, un’altra parte di Catania veniva spinta indietro. I più poveri, i più deboli, gli affamati, gli ignoranti, i disoccupati, la plebe: cento, centocinquantamila esseri umani respinti verso i ghetti del sud, intanati sempre più profondamente nelle viuzze che scavano i quartieri di S. Cristoforo. Fortino, Angelo Custode, Corso, Santa Maria Goretti, come rigagnoli d’una immensa fogna umana, edifici fatiscenti, case scrostate, tuguri, immondizia dovunque, torme di ragazzini ai quali la società concede solo un po’ di scuola impaurita: non una palestra, uno spazio per il gioco, una pista di cemento, una piazza di verde, né una prospettiva di lavoro, una casa popolare, un mestiere. Per costoro la società è una cosa astratta e lontana che non garantisce niente, né educazione civile, né fognature, acqua, sport, lavoro, casa, difesa dalle malattie, ospedali per curarle, asili, assistenza, igiene, ordine.

La regola fondamentale che si apprende fino dall’infanzia, il principio esistenziale, la sola cosa insomma che si ritiene vera è la esistenza di due società, una che può usare violenza sull’altra. Evidentemente le norme civili che regolano l’esistenza della prima non possono essere accettate dalla seconda. Vengono oltraggiate.

Così per un ragazzino di dieci anni lo scippo diventa già una occasione favorevole per distinguersi dal gruppo; l’aggressione contro un’auto al «passo dei ladroni» una prima esigenza organizzativa di gruppo; la devastazione delle cose pubbliche, sedili, aiuole, cabine telefoniche, il piacere di piccoli attentati di un’infinitesima guerra civile. A dodici anni lo scippo, a quattordici il furto delle auto, a sedici lo scasso dei negozi, a diciotto la rapina nelle tabaccherie, a venti l’assalto alla banca, e quindi anche l’omicidio, se è necessario. Infine l’estorsione che è la possibilità di campare secondo la propria capacità di violenza, facendosi pagare la vita dagli altri, dai fortunati, dai più ricchi, da coloro che appartengono all’altra anima della città e ne godono i vantaggi.

La parte più miserabile della popolazione, respinta nel ghetto, culturalmente disarmata, politicamente impotente non ha altro mezzo per riconquistare la città che la violenza. E la esercita sempre e dovunque, contro chiunque. Ed ecco due anime di Catania: la prima avida, impaurita, intelligentissima; preparata, padrona di tutti i mezzi di potere e di tutte le ricchezze, politicamente disponibile a qualsiasi sistema purché garantisca ordine pubblico, sicurezza personale e possibilità comunque ad ognuno di continuare a farsi gli affari suoi; la seconda affamata, feroce, imbestialita, che assalta continuamente, che si nutre degli scarti, rifiuti, pedaggi, estorsioni.

Non esiste alcuna altra grande città italiana o europea come Catania, in cui ogni attività commerciale, industriale, economica, (dalla bottega del salumiere al grande magazzino, dal proprietario di bancarella al grossista) sia costretta a pagare un pedaggio per potere lavorare. Cinquantamila lire al mese, centomila, mezzo milione, un milione. Moltiplicate per mille, per diecimila, trentamila e diventano decine di miliardi. Centinaia di miserabili sono diventati ricchi così.

A volte, si affrontano e insanguinano la città. Trenta omicidi in un anno, nessuno risolto. C’è una cosa folle. Pagano tutti, sempre. Cioè l’anima rapace, ricca, fortunata, potente paga ogni giorno il suo prezzo vile all’anima miserabile infelice e violenta. Ogni tanto uno scossone, un muggito di collera, e centomila voti ai fascisti per significare che vorrebbero un poliziotto ad ogni angolo di strada, e leggi che consentano di picchiare a sangue lo scippatore catturato in flagrante, ed altre che prevedano la fucilazione per l’assassinio.

Mai è passato una sola volta per la testa che la maniera sarebbe di togliere i miserabili dalla miseria, gli infelici dall’infelicità, i violenti dalla violenza, di dare la casa, la scuola, la palestra, l’ospedale, l’acqua, la capacità e quindi anche l’occasione di un lavoro moderno.

Fra questa anima disperata e criminale che popola il sud di Catania, dal quartiere della Marina, fino alle colline di corso Indipendenza e Monte Po, e l’altra anima potente e tremebonda che ha trasformato la zona pedemontana in una immensa città giardino, vive ancora per fortuna la terza anima di Catania, la più vera ed autentica, quella che lavora per tutti gli artigiani, i piccoli negozianti, i contadini, gli operai, i piccoli impiegati, la moltitudine di merciai, commercianti, bottegai, la vecchia, l’antica anima ridente e sfottente di Catania, che paga per tutti, che lavora, soffre, e riesce persino ancora a ridere per tutti. E a tutti contagia questo riso, allo speculatore edile e allo scippatore, al primario ed al rapinatore, al presidente dell’ente pubblico e al disoccupato.

Per questo è puttana Catania, perché ha tante anime e una sola risata. E perciò uno s’innamora, viene tradito continuamente e continua egualmente ad amarla. E così, amandola, voglio appassionatamente continuare ad insultarla.

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