Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.


Provenzano non riesce più a rappresentare il “punto di mediazione” tra le diverse anime di Cosa Nostra. I problemi di salute e la lunghissima la latitanza lo tengono lontano dalla quotidianità degli scontri nelle diverse articolazioni dell’associazione.

Dopo quasi venticinque anni, la pace imposta con le armi dai corleonesi sta per finire. Senza dubbio i contrasti interni si sono aggravati. E i preparativi della guerra si innestano in un contesto in cui la posta in gioco è molto più importante della violazione delle regole sul “ritorno degli scappati”, stabilite più di venti anni prima, o del riaffacciarsi dell’interesse al traffico internazionale di stupefacenti. Questi sono solo i fattori scatenanti.

Le rivalità sono profonde dentro l’organizzazione e sono la conseguenza di cause di varia natura. Molte risalgono a decine di anni prima; non sono altro che la prosecuzione in forma diversa della seconda guerra di mafia (1981-1983). Altre sono maturate nell’ultimo periodo per questioni economiche legate alla gestione delle estorsioni, agli appalti o al traffico di stupefacenti.

Altre ancora dipendono dal come reagire alle iniziative di contrasto all’organizzazione provenienti dalla magistratura e delle forze dell’ordine, che hanno decimato un “esercito” apparentemente invulnerabile. Su questo punto, in particolare, si contrappongono diverse ideologie. C’è chi vuole tentare ancora una volta la carta della intimidazione se non addirittura dell’attentato eccellente, seguendo la strategia di Riina; e chi invece, tenendo conto degli effetti nefasti dello “stragismo”, ritiene che si debba coltivare quella “cultura della mediazione sottobanco” con il mondo della politica e dell’imprenditoria per “addomesticare” leggi, stampa e società civile.

Semmai, in questa ottica, può essere opportuno infiltrare qualche mafioso nella rete dei collaboratori di giustizia per depistare indagini e smontare sentenze già definitive.

La logica degli schieramenti informa ogni comportamento. I dialoghi tra Rotolo e i suoi più stretti sodali dimostrano che il progetto di guerra non è altro che una operazione centralistica. Con la guerra si deve risolvere la lotta per la successione al vertice tra il boss di Pagliarelli e Lo Piccolo. Ma quel dualismo si porta dietro tante storie, anche diverse tra loro. E quel dualismo semina

inevitabilmente discordie, sospetti, tradimenti e spaccature nei mandamenti e nelle famiglie, oltre a travolgerne l’autonomia. Su Boccadifalco c’è una evidente indebita ingerenza di Rotolo che provoca la frattura tra i fratelli Giovanni e Vincenzo Marcianò.

Vincenzo che aveva ricevuto le pressioni di Lo Piccolo ed in seguito viene sostituito nella reggenza del mandamento, vuota il sacco e dice Bonura che, secondo lui, Rotolo è un folle. Su Porta Nuova si assiste ad un blizt orchestrato sempre da Rotolo che estromette Giovanni Lipari da una carica che gli spettava in favore di Nicola Ingarao, fido scudiero del capo. Mentre nel mandamento di San Lorenzo solo la famiglia capeggiata da Cinà e Girolamo Biondino stava con Rotolo, mentre le altre famiglie erano con Lo Piccolo, compresa quella di Carini, il cui reggente Vincenzo Pipitone aveva “giurato” due volte, prima di fronte a Rotolo e Cinà e poi davanti a Lo Piccolo.

Anche venticinque anni prima la logica degli schieramenti aveva alimentato la spirale dei sospetti, dei tradimenti, dei “cambi di casacca” dentro le famiglie e i mandamenti. Anche allora, la gestione del narcotraffico era stata solo un pretesto. Sullo sfondo c’era una questione di schieramenti di potere che non coincideva con le famiglie né di mafia né di sangue.

Erano scoppiate delle vere e proprie “lotte di classe” dentro le cosche, dovute al fatto che non erano le famiglie a gestire gli affari ma i singoli mafiosi, ciò determinando l’arricchimento solo di alcuni e quindi l’invidia degli altri. Così i fratelli Bontade, Stefano e Giovanni, trafficavano entrambi, l’uno all’insaputa dell’altro. E tale situazione ha una relazione con la scelta di Giovanni di schierarsi coi vincenti accettando l’assassinio del fratello in barba ad ogni codice familistico. Lo stesso Buscetta, pur appartenendo alla cosca di Porta Nuova di Calò alleata con Riina, si allea con Inzerillo e Bontade, dimostrando la ridislocazione delle forze per schieramenti.

La “guerra” che sta per scoppiare nell’estate del 2005, non è altro che l’epilogo di una storia che parte da lontano, dunque. Il momento di resa dei conti di annosi conflitti dentro le famiglie e nei territori di Cosa nostra. Conflitti, più o meno striscianti, che hanno messo in discussione l’egemonia che i “corleonesi” avevano strappato con la forza alle famiglie palermitane nei primi anni ottanta.

Allora, il golpe di Riina e Provenzano aveva scalzato dai posti di comando delle cosche di Palermo i boss di famiglie che rappresentavano la mafia da qualche generazione. Quei boss, nel “mondo” di Cosa nostra, erano considerati uomini di valore, in grado persino di rassicurare importanti esponenti delle istituzioni e del mondo dell’economia. Molti di loro erano morti. Altri erano stati costretti all’umiliante esilio.

Ora, c’è una nuova generazione di protagonisti: Nicola Mandalà, Gianni Nicchi, Sandro Mannino, Giuseppe Salvatore Riina, Sandro Lo Piccolo. Tra loro, ci sono anche i figli dei “perdenti”, come Giovanni Inzerillo figlio di Totuccio.

I figli sono cresciuti. Hanno avuto il tempo di conoscere le questioni più spinose, di coltivare amicizie, di fare esperienze criminali. E hanno le energie e la rabbia per riprendersi ciò che gli era stato sottratto. La caccia all’uomo sta per iniziare.

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