Il presidente della Corte di Appello di Palermo Giovanni Pizzillo convocò il consigliere Chinnici per dirgli: “Ma cosa credete di fare all’Ufficio di Istruzione? La devi smettere di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l’economia siciliana”. E gli suggerì di caricare di “processetti” Falcone, in modo che “così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore
Di fronte a questo scenario, la rivoluzione giudiziaria – come poi accadde per la mia vita professionale – partì con una telefonata. E fu quella che Rocco Chinnici fece a Giovanni Falcone. Senza tirarla tanto per le lunghe, il consigliere gli chiese la disponibilità a occuparsi del processo Spatola, l’inchiesta di cui si era già occupato il procuratore Gaetano Costa, ucciso dopo aver firmato in solitudine il mandato di cattura nei confronti di alcuni “uomini d’onore”.
Falcone, naturalmente, accetta l’incarico, inizia a indagare e, in breve tempo, intuisce che alcuni delitti di mafia sono legati fra loro, fanno parte di una logica associativa; per quanto riguarda il traffico di droga, realizza che era più facile seguire il denaro delle transazioni che andare a caccia delle raffinerie, ovvero di laboratori impiantati in Sicilia che per anni ci si era intestarditi a scovare. A Giovanni quel difficile lavoro sul campo sembrava troppo dispendioso e pericoloso.
Sarà anche per la sua preparazione giuridica e perché era un cultore del diritto bancario, ma le prove andò a cercarle nelle banche, provocando il panico nell’intera società siciliana.
Nel 1979 ebbe la brillante e, a quel tempo, eversiva idea di chiedere ai direttori degli istituti di credito di Palermo e provincia di inviargli le distinte di cambio di valuta estera per le operazioni effettuate a partire dal 1975. Fu un’intuizione rivoluzionaria che provocò un terremoto di reazioni immediate e scomposte. Come quella di un importante penalista palermitano che, nell’atrio del Tribunale, in modo che tutti potessero sentirlo, disse: “Ma dove vuole andare questo Falcone?”, dal momento che Giovanni aveva chiesto copia di un versamento da 300 mila dollari alla filiale siciliana della Cassa di risparmio per le province siciliane.
O come quando il presidente della Corte di Appello di Palermo Giovanni Pizzillo convocò il consigliere Chinnici per dirgli: “Ma cosa credete di fare all’Ufficio di Istruzione? La devi smettere di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l’economia siciliana”. E gli suggerì di caricare di “processetti” Falcone, in modo che “così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente”. Ma Chinnici, ovviamente, non ascoltò il consiglio di sua eccellenza Pizzillo.
L’idea di entrare negli istituti di credito, considerati santuari inaccessibili, ebbe un effetto destabilizzante perché era impensabile, sino ad allora, che qualcuno potesse mettervi piede per effettuare delle indagini. La mafia lì dentro si sentiva al sicuro. L’ispirazione a procedere in tal modo venne a Falcone, così si racconta, dopo aver visto un documentario sulla storia di Al Capone, il principale gangster americano degli anni Venti, all’epoca del Proibizionismo. Per anni i federali cercarono di incastrarlo senza riuscirci, ma raggiunsero l’obiettivo quando, dopo che il boss era stato dichiarato “nemico pubblico numero uno”, fu formata una squadra di investigatori con il compito di esaminare le sue transazioni finanziarie. Alla fine Al Capone venne condannato alla pena di undici anni di reclusione per il reato di evasione fiscale.
Per la Sicilia, e l’Italia intera, stava davvero accadendo una specie di rivoluzione. E mi sarebbe piaciuto vedere da vicino le facce di quei funzionari di banca. Qualcuno rispose con prontezza alla richiesta, altri presero tempo e altri ancora chiamarono Falcone per chiedere chiarimenti. Ma non c’era nulla da chiarire: bisognava trasmettere la documentazione richiesta.
Fu grazie a questo metodo di lavoro, per esempio, che Giovanni riuscì a scoprire, nel 1979, che sotto il falso nome di Joseph Bonamico si nascondeva Michele Sindona, raggiungendo così la prova della sua presenza in Sicilia. Un passaggio fondamentale per quell’indagine.
D’altra parte, bisogna ricordarsi che, nonostante la leggendaria capacità di lavoro di Falcone e l’abnegazione delle forze dell’ordine, si lavorava in maniera artigianale, complice la mancanza di strumenti informatici. E infatti la sorella Maria mi ha confermato quello che già sapevamo, e cioè che anche i tavoli dell’appartamento in cui Giovanni viveva con la madre erano interamente coperti di assegni da esaminare. Ed era stato con l’aiuto di Ninni Cassarà e del giovane capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro che Falcone aveva potuto mettere a fuoco i collegamenti fra Cosa nostra italiana e quella americana, resi manifesti nel corso dell’indagine cosiddetta “Pizza Connection”, e aveva compreso che la lotta alla criminalità organizzata doveva valicare i confini nazionali.
Allora crebbe anche la consapevolezza che la mafia avesse raggiunto un alto grado di contaminazione dell’economia legale, con effetti visibili quali la distorsione della concorrenza, l’imposizione dei prezzi e dei ribassi nelle gare di appalto.
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