Se gli Stati Uniti e la Ue non dessero peso alla iniziativa della Corte penale internazionale passerebbe il principio che le regole non valgono per tutti; che, nell’arena internazionale, vige incontrastata la legge del più forte
È innegabile che la decisione del procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aja di chiedere l’emissione di un mandato di cattura per i leader di Israele rappresenti una notizia.
Mai lo si è fatto in passato per capi di stato o di governo di paesi democratici. Di più: semmai, in passato, si è criticata la Cpi per essersi occupata quasi esclusivamente di autocrati e dittatori, soprattutto africani. Nonché dei boia dei Balcani e, recentissimamente, di Putin. La Corte giudica le persone e non gli stati, come nel caso, distinto, ma sempre inerente a Israele per sospetto genocidio del popolo palestinese a Gaza, della Corte di giustizia internazionale.
Sia chiaro: allo stato, in entrambi i casi, si tratta di ipotesi accusatorie sulle quali le due diverse Corti dovranno pronunciarsi. Trattandosi oggettivamente di una notizia di rilievo, non sorprende che ne sia sortita una vivace discussione.
Richiamo qui tre obiezioni. La prima sul profilo del procuratore Khan. In verità unanimemente considerato serio e affidabile, di formazione anglosassone, a suo tempo apprezzato anche da Usa e Israele. Per Bonino, certo non sospetta di insensibilità per le ragioni di Israele, «un ottimo presidente», che, come accennato, ha avanzato una richiesta di arresto per Putin. Subendo minacce.
Seconda obiezione: l’impropria equiparazione tra Hamas e lo Stato democratico di Israele. Non è così: i fatti (accertati da un pool di esimi giuristi), le ipotesi di reato, ovvero crimini di guerra e contro l’umanità a essi imputati, sono fattispecie diverse. Nel caso di Netanyahu: avere affamato la gente di Gaza come azione di guerra, omicidi e strage di civili.
Come si è detto, il giudizio si appunta sulle persone, non sulla natura giuridica dell’ente da esse rappresentate. Compito della Cpi è applicare le norme del diritto internazionale a fatti accertati.
Terza obiezione: la preoccupazione che l’iniziativa della Cpi non giovi, ma, al contrario, nuoccia ai fini di una composizione politica del conflitto, come dimostrerebbero da un lato la reazione sdegnata, corale e unitaria, del governo israeliano (notoriamente diviso sulla conduzione del conflitto e a valle di esso), dall’altro la risposta altrettanto reattiva e polemica degli Usa, nonostante la nota divergenza con la politica di Netanyahu. Domando: è ragione sufficiente per accedere all’idea che il diritto e chi lo presidia debbano piegarsi alle ragioni della politica? Un interrogativo familiare a certe dispute minori di casa nostra su politica e giustizia. Al riguardo merita fare memoria dell’atto fondativo della Cpi, ovvero lo statuto di Roma del 1998, alla cui stesura cooperò la stessa Bonino.
Nel solco dell’esperienza dei tribunali di Norimberga e di Tokyo, la sua ragione sociale stava e sta appunto nella scommessa del diritto internazionale umanitario, nell’aspirazione ad applicare alla comunità internazionale il principio-cardine dello Stato di diritto, cioè l’idea che la forza del diritto debba prevalere sul diritto della forza. Significativa la circostanza che l’atto costitutivo della Cpi sia stato ratificato da ben 123 paesi. Altrettanto significativo che non lo abbiano sottoscritto Usa, Russia, Cina, India, Turchia, Israele, Pakistan.
Non è difficile arguire il perché: l’indisponibilità ad accettare che vi sia chi possa sindacare sulle proprie azioni oltreconfine. Ha ragione Vladimiro Zagrebelsky: se gli Stati e la Ue non dessero peso alla iniziativa della Cpi, «il sistema internazionale di giustizia verrebbe messo nel nulla»; passerebbe il principio che le regole non valgono per tutti; che, nell’arena internazionale, vige incontrastata la legge del più forte. Subirebbe un colpo mortale la speranza che il lento ma prezioso sviluppo di istituzioni sovranazionali terze ed equanimi possa almeno arginare la logica hobbesiana dell’“homo homini lupus”.
Apprendiamo che addirittura gli Usa, che non la riconoscono, potrebbero comminare sanzioni alla Cpi. Sarebbe la sconfitta della base stessa del costituzionalismo liberale e dell’universalismo dei diritti, nonché un attestato dei doppi o tripli standard; dell’ipocrisia con la quale opponiamo la superiorità delle democrazie occidentali rispetto ai regimi autoritari.
A ben riflettere, quando giustamente si contesta l’asserita, impropria equiparazione tra lo stato democratico di Israele e la formazione politico-terroristica di Hamas, coerentemente si dovrebbe concludere che proprio i principi basici delle democrazie costituzionali autorizzano a essere con esse più esigenti. Sugli standard adottati dentro e fuori dei loro confini.
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