Mio padre se l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Lenin sull’emancipazione della donna e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi trentaquattro anni
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco
Dei suoi giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato persino di aver aggirato la censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare su l’Unità, ne era la prova: ...In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi...
Questa lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per reati gravi, uno dei quali per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore.
Mi immergevo nella lettura, studiavo e scrivevo tanto – raccontava – e presi l’abitudine a fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio. Abitudine che ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava fare lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non era raffinato, e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla e irruento nei contrasti. Quando se l’era sposato, mia madre era consapevole di chi si stesse mettendo in casa. Nel vero senso della parola, perché mio padre aveva lasciato la casa paterna dopo l’incendio della porta della stalla, un avvertimento mafioso. Mio padre era colpevole non solo di essere comunista, ma anche, e soprattutto, di aver voluto aprire una sezione del PCI nella sua borgata e poi un’altra ancora ed un’altra ancora, cosa che aveva notevolmente infastidito i mafiosi locali.
Mio nonno fu avvertito dei cattivi sentimenti che i mafiosi nutrivano nei confronti del figlio comunista e cercò di metterlo in guardia, senza nessun risultato, anzi. Gli disse che avrebbe fatto meglio a concentrarsi sullo studio. Mio padre, dopo il brutto episodio della stalla, consapevole anche dei rischi derivanti dalla sua presenza decise di trasferirsi a casa di compagni di partito. Confermò, così, la scelta di dedicarsi completamente alla politica, sacrificando la cosa che aveva amato di più e senza la quale non sarebbe giunto sino a dove era arrivato.
Più che una casa, per la verità, era la stanza, affittata da Pancrazio De Pasquale ed un altro compagno, col quale mio padre condivideva il letto. Quando chiese a mio nonno materno l’assenso a sposare mia madre e il nonno gli chiese dove pensassero di andare a vivere dopo sposati, la sua risposta fu: a casa sua, dottore Zacco.
Il nonno Francesco Zacco, barone e repubblicano, che aveva fatto la guerra come medico militare. Il nonno era, anche, amico dei comunisti che, nel dopoguerra, ospitava nella sua casa per le riunioni e non solo per le riunioni, anche a vivere con le loro famiglie. Come successe a Pompeo Colajanni, mitico comandante partigiano, che aveva partecipato alla liberazione di Torino, una volta tornato a Palermo ad assumere un ruolo dirigente nel PCI siciliano. Colajanni fu ospite a casa dei nonni per diversi mesi, con moglie e tre figli piccoli, uno di questi era Luigi, trent’anni dopo l’altro candidato alla segreteria del PCI siciliano. Fu mio nonno che parlò a Bufalini di mio padre in carcere e denunciò l’atteggiamento assunto dal partito, ottenendo le scuse e l’impegno che ne derivò immediatamente.
Comunista fu la scintilla, o meglio la federazione del partito, dove mia madre, la baronessina, educata da tate tedesche, era stata portata da suo padre, che aveva fatto esplodere l’amore per colui che, dopo pochi mesi, avrebbe sposato.
Per la scelta di sposare un comunista fu scomunicata e diseredata dallo zio prete.
Mio padre se l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Lenin sull’emancipazione della donna e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi trentaquattro anni.
Erano diversi: lei bionda, lui bruno, lei cresciuta nell’agiatezza, lui figlio di contadini poveri. Li accomunava una straordinaria forza di carattere e una profonda generosità d’animo.
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