Nella storia, l’antiebraismo ha origini antichissime e si è sommato alla competizione che per secoli ha caratterizzato un rapporto ineliminabile com’è quello tra ebrei e cristiani, vitale innanzi tutto per questi ultimi
Il massacro di ebrei del 7 ottobre, a cui si è aggiunto il 30 novembre l’attentato di Gerusalemme, entrambi pianificati e perpetrati da Hamas, e la tragica sequela bellica, hanno rinfocolato in molti ambienti l’antisemitismo. Latente in parte della tradizione cristiana, la diffidenza nei confronti dell’ebraismo è stata percepita – e denunciata con asprezza da autorità israeliane e da molti rabbini – anche in scelte e parole del papa.
A fatica queste sono state bilanciate da dichiarazioni di esponenti della diplomazia della Santa sede – che da tempo appare in difficoltà – ma sono state anche criticate con coraggio e preoccupazione da interventi di intellettuali cattolici, come già era successo per la linea adottata dal pontefice di fronte all’aggressione e alla guerra russa contro l’Ucraina.
Dopo la Shoah
Nella storia, però, l’antiebraismo ha origini antichissime e si è sommato alla competizione che per secoli ha caratterizzato un rapporto ineliminabile com’è quello tra ebrei e cristiani, vitale innanzi tutto per questi ultimi.
Tutto è cambiato dopo la Shoah, che ha imposto un radicale ripensamento in ambito cristiano. A questo ha dato un contributo notevole il celebre Jésus et Israël di Jules Isaac. Pubblicato nel 1948, il libro è radicato nella convinzione – vissuta profondamente dall’ebreo francese, la cui moglie e figlia furono assassinate ad Auschwitz – che alla base della «lebbra» dell’antisemitismo di molti protestanti e cattolici si ritrovano «detestabili abitudini di spirito e di cuore, e di linguaggio». Queste sono frutto «d’ignoranza, di errore o d’iniquità», e tuttavia «basta, per rettificarle, una sana lettura dei testi sacri», insieme «all’esatta conoscenza delle realtà storiche» scriveva l’autore già nel 1943.
Due anni dopo la fine della guerra Isaac, prima di pubblicare il suo libro, aveva partecipato in Svizzera all’incontro di Seelisberg, dove una settantina di esponenti religiosi ebrei, protestanti e cattolici avevano raggiunto un accordo per aiutare le chiese cristiane a bandire ogni atteggiamento ostile nei confronti degli ebrei e promuovere «l’amore fraterno verso il popolo dell’antica alleanza, così duramente provato».
La Nostra aetate
Meno di un ventennio più tardi, per impulso di Giovanni XXIII e poi grazie alle mediazioni di Paolo VI, nel 1965 il concilio Vaticano II approvava a larghissima maggioranza la dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane, svolta tormentata ma decisiva, anche e soprattutto nei rapporti con gli ebrei.
Sulla base delle fondamentali affermazioni di san Paolo nella lettera ai Romani, il concilio ribadisce l’origine ebraica di Gesù, figlio di Maria, ricordando «che dal popolo giudaico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della chiesa, e la gran parte dei primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo». Nonostante il non riconoscimento di Cristo – continua il testo conciliare – «i giudei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono irrevocabili».
Era la definitiva pietra tombale sulla teoria della sostituzione, secondo la quale la chiesa avrebbe sostituito l’ebraismo, una teoria che il giovane Joseph Ratzinger già da anni respingeva sul piano teologico. Dalla Nostra aetate i rapporti tra cattolici ed ebrei sono sensibilmente migliorati, durante i pontificati di Giovanni Paolo II e soprattutto di Benedetto XVI. Molti sono stati gli incontri e i documenti. Tra questi, di grande importanza è stato nel 2001 il lunghissimo studio – un libro di duecento pagine – della Pontificia commissione biblica sul «popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana».
Confermando la convinzione di Isaac sulla lettura dei testi sacri, il testo vaticano – introdotto proprio dal cardinale Ratzinger, che come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede presiedeva la commissione – conclude che «un atteggiamento di rispetto, di amore e di stima per il popolo ebraico è il solo atteggiamento veramente cristiano». Il legame inscindibile costituito dalla radice comune coesiste certo con il disaccordo sulla messianicità di Gesù, ma in una «situazione che fa misteriosamente parte del disegno, totalmente positivo, di Dio».
Radicamento nel giudaismo
Fin dai primi secoli del cristianesimo la competizione e il contrasto con gli ebrei si sono affiancati all’interesse per le Scritture ebraiche da parte di intellettuali e biblisti cristiani: da Origene, Eusebio di Cesarea, Girolamo, Efrem ai medievali Nicola Maniacutia, Nicola di Lira e il bizantino Simone Atumano, fino alla fioritura in età umanistica e moderna con Giannozzo Manetti, Johannes Reuchlin, lo stesso Lutero, Richard Simon. Solo recentissimo è invece l’interesse di parte ebraica per le Scritture cristiane, a partire dalla traduzione in francese di tutta la Bibbia – compreso dunque il Nuovo Testamento – di André Chouraqui (dal 1974, poi pubblicata in un solo volume da Desclée de Brouwer nel 1985).
Il Nuovo Testamento è stato invece tradotto nuovamente in italiano e commentato dall’ebreo Marco Cassuto Morselli e dalla cattolica Gabriella Maestri. In mille pagine – suddivise in tre volumi editi nel 2021 da Castelvecchi – i vangeli, gli Atti degli apostoli, le lettere e l’Apocalisse sono così presentati in una lingua incastonata di nomi e termini ebraici (spiegati alla fine in indispensabili indici). Ne risulta «una lettura ebraica», straniante e affascinante al tempo stesso, accompagnata da un commento per molti aspetti interessantissimo, che mostra il radicamento dei più antichi testi cristiani nel giudaismo.
Testi e tradizioni
Cassuto Morselli e Maestri erano agli inizi della loro impresa quando l’Oxford University Press, nel 2011, pubblicava The Jewish Annotated New Testament, coordinato da Amy-Jill Levine e da Marc Zvi Brettler. Molto ampliato nel 2017 e appena edito in italiano dalla Queriniana con il titolo Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei (a cura di Flavio Dalla Vecchia), il libro, che supera le novecento pagine, è stato scritto da ottanta specialisti americani, europei, australiani e israeliani – per la prima volta tutti ebrei – e costituisce dunque una vera novità.
Presentata con chiarezza e concisione nella migliore tradizione dell’Oxford University Press (e della Queriniana), l’opera non è caratterizzata da una nuova traduzione (che è infatti in Italia quella approvata dalla conferenza episcopale, cioè la più diffusa). Innovativi sono però i testi introduttivi ai singoli libri neotestamentari, il commento molto puntuale, decine di riquadri, tavole e indici, e soprattutto – per quasi un terzo del volume – ben cinquantaquattro saggi sul contesto storico, sociale, religioso, letterario del Nuovo Testamento e sulle reazioni ebraiche al cristianesimo.
I coordinatori e gli autori dell’opera sono partiti da una constatazione: nonostante le reciproche percezioni siano molto migliorate, «gli ebrei e i cristiani fraintendono ancora vicendevolmente molti dei loro testi e delle loro tradizioni». Inoltre – scrivono Levine e Brettler – «come noi ebrei desideriamo che i nostri vicini capiscano i nostri testi, le nostre credenze e pratiche, così anche noi dovremmo comprendere gli elementi basilari del cristianesimo»; in particolare il Nuovo Testamento, definito «opera religiosa fondamentale».
Nuova e rigorosa, questa lettura ebraica delle Scritture neotestamentarie si tiene lontana, con equilibrio, da pregiudizi religiosi e ideologici. Così, secondo i due curatori gli inizi, molto diversi tra loro, dei quattro racconti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni «chiariscono che i vangeli fanno parte di una storia più ampia, e invero sono scritti come compimento di tale storia». Quando poi s’interrogano sulla storicità di alcuni racconti di miracoli – se siano cioè «storie morali e teologiche» oppure «resoconti storici» – si pongono le stesse domande a proposito dei testi sacri ebraici, come la «storia della creazione all’inizio della Genesi».
Molto va ancora fatto per favorire la conoscenza tra ebrei e cristiani. E aperte restano in conclusione due domande, come sintetizza efficacemente uno degli ottanta autori, Ed Kessler: «Per gli ebrei, cosa implica il fatto che, per via del Gesù ebreo e dei suoi primi discepoli ebrei, due miliardi di cristiani ora adorano il Dio di Israele e leggono le Scritture di Israele? E per i cristiani, cosa implica il fatto che i loro testi sacri abbiano preso forma negli ambienti ebraici e proclamino Gesù, un ebreo, Messia e Signore?».
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