- Alle Alpi mancano due terzi della neve, in Appennino si arriva a punte di -84 per cento in Abruzzo. È difficile che le precipitazioni dei prossimi giorni possano compensare questo shock.
- La copertura della neve è ai minimi storici degli ultimi seicento anni, le condizioni adatte per sciare sono salite di altitudine e la stagione si è accorciata di oltre un mese. La neve artificiale rischia di essere un cerotto su una voragine.
- La neve che manca oggi è acqua che mancherà in primavera e in estate: le montagne nude di dicembre e inizio gennaio sono un’anticipazione per il rischio di un secondo anno di siccità.
Dall'inizio di questa settimana l'Italia tornerà in una fase di freddo, con l'arrivo di masse d'aria artica dal nord. «Vivremo la normalità dell'inverno, solo che ora è quella normalità a essere diventata eccezionale», commenta Giulio Betti, climatologo del CNR.
Da oggi dunque le temperature si abbassano, ci saranno precipitazioni e tornerà a cadere la neve, probabilmente anche a bassa quota, ma sarà solo una parziale correzione rispetto alla spaventosa anomalia degli ultimi mesi, con una carenza di neve sull'Italia di portata secolare.
Secondo la Fondazione Cima, centro internazionale di monitoraggio ambientale, siamo arrivati all'inizio di questa ondata di freddo con due terzi di neve in meno rispetto alle medie abituali sulle Alpi, e con picchi ancora più preoccupanti sull'Appennino: addirittura meno 84 per cento di neve in Abruzzo.
Alla svolta di Capodanno sulle montagne italiane si vedevano solo erba verde e i primi fiori, e si poteva girare in felpa e maglietta anche ad altitudini elevate, la neve artificiale ha potuto sopperire solo dove le temperature lo consentivano e molti impianti sono rimasti chiusi.
Si dice che il clima sia impazzito, ma al contrario questi cambiamenti hanno una loro coerenza, il clima è un sistema complesso nel quale tutto si tiene.
Non c'è neve anche perché lo sbalzo termico sull'Italia intorno a Natale è stato di +2.09°C rispetto all'era pre-industriale, già oltre la soglia ultima di sicurezza dell'accordo di Parigi, ed eravamo in buona compagnia, visto che a fine dicembre sono state registrate temperature eccezionali su tutta l'Europa, con massime di 16°C in Bielorussia, 19°C in Polonia, 25°C nei Paesi Baschi spagnoli.
Le immagini dei Mondiali di sci di inizio anno a Adelboden erano spettrali, con quelle strisce di neve artificiale stese su prati dall'aspetto più che primaverile, a gennaio, in Svizzera, sopra 1400 metri.
Per il centro e il sud Italia è stato il dicembre più caldo da quando misuriamo le temperature in modo scientifico, coda lunga di una serie di record che ci accompagnano dalla scorso maggio, al nord le medie sono state attenuate dai pochi giorni freddi di inizio dicembre, ma lì siamo comunque arrivati a Capodanno con +1.2°C di anomalia termica.
Mai così poca
La neve che cadrà sulle Alpi e gli Appennini in questi giorni rischia di essere allo stesso tempo un sollievo e un'illusione. Sollievo per le comunità montane, per l'industria del turismo invernale, per gli ecosistemi, ma illusione perché non c'è oscillazione del meteo che possa cambiare le tendenze trentennali del clima.
Secondo una ricerca appena pubblicata su Nature, effettuata sui tronchi dei ginepri, la copertura di neve sulle Alpi non era così bassa da seicento anni (e solo perché i tronchi di ginepro su cui è stato fatto lo studio avevano al massimo seicento anni).
Il numero dei giorni con precipitazioni nevose si è ridotto del venti per cento, il manto nevoso si forma in media venti giorni più tardi, si perde in media quindici giorni in anticipo, la stagione sciistica si è accorciata già di un terzo ed è salita in media di 400 metri in altitudine, almeno come condizioni ideali, economicamente ed ecologicamente sostenibili.
Negli anni Sessanta e Settanta, quando c'è stata l'esplosione del settore sciistico, si sono costruiti impianti e piste a quote oggi impensabili da un punto di vista climatico, tra gli 800 e i 1.000 metri. Da allora le Alpi hanno perso il 5,6 per cento della copertura di neve per decennio.
Oggi per avere i fatidici cento giorni di sciabilità all'anno con un manto nevoso che sia spesso almeno di 30 centimetri (per gli sciatori della domenica) e 60 centimetri (per gli atleti e le gare sportive) bisogna salire ai 1.800 metri.
«Intorno ai 1.500 metri di quota sulle montagne sono decenni che si perdono dai 5 ai 7 centimetri di neve all'anno, vuol dire due metri di neve in meno in trent'anni», spiega il nivologo Massimiliano Fazzini, che è anche meteorologo della Coppa del Mondo del mondo di sci, insomma, non un ambientalista radicale che può essere accusato di tirare i piedi all'industria del turismo invernale.
La neve energivora
Questa dei 1.800 metri è ormai considerabile quasi ovunque in Italia (a parte alcuni fondovalle con marcati fenomeni di inversione termica, dove fa più freddo a quote più basse) la soglia ragionevole per mantenere vivo questo settore nei prossimi decenni, è il limite di profittabilità, sotto è necessario ricorrere in modo sempre più costante all'innevamento programmato, che però è costoso, energivoro, ha bisogno di tantissima acqua (la stessa risorsa che si riduce con la scomparsa della neve e che diventerà sempre più scarsa, fino a meno 40 per cento nel corso di questo secolo secondo il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici) e necessita comunque di determinate temperature per essere efficace e far sciare i turisti.
Questa tecnica è indicata anche dai report dell'Ipcc, il braccio scientifico dell'Onu sul cambiamento climatico, come una forma legittima di adattamento, non va demonizzata ma, come commenta Fazzini, «sempre laddove i costi dell'energia e quelli ambientali lo permettano».
C'è insomma un confine sottile tra l'adattamento di un settore a nuove condizioni e l'accanimento terapeutico e lo stabilisce solo la realtà climatica e geografica, non l'ostinazione di imprenditori o amministratori.
La situazione più preoccupante dal punto di vista dell'industria è quella a quote tra i 1200 e i 1500 metri e in generale su Alpi occidentali e Appennino settentrionale, dove la mancanza di neve è più cronica e consolidata.
E dobbiamo ricordarci che oggi stiamo ancora affrontando i problemi di un mondo che secondo l'Organizzazione Meteorologica Mondiale è stato nel 2022 in media di 1.15°C più caldo (e il doppio il montagna, perché le alte vette sono più sensibili alla crisi).
Le comunità e le aziende devono iniziare oggi a porsi il problema di come affronteranno la mancanza di neve quando supereremo (probabilmente già nel corso del prossimo decennio) la soglia più ottimistica di sicurezza messa dalla scienza del clima, 1.5°C, e poi quando andremo oltre.
Prima di Cop27, l'ultimo summit Onu sul clima tenuto a novembre in Egitto, l'Unep (United Nations Environment Program) aveva avvisato: a policy attuali invariate questo è un mondo che va verso un riscaldamento medio di 2.8°C, e lì non ci sarà neve artificiale che tenga.
Lo ha spiegato anche la Banca d'Italia in uno studio uscito a dicembre e intitolato Cambiamento climatico e turismo invernale per l'Italia: «La neve artificiale può coprire da perdite finanziarie occasionali in anni di scarso innevamento, ma non proteggerà da inverni progressivamente più caldi». A queste condizioni la neve artificiale è un cerotto su una voragine e una promessa impossibile da mantenere.
Il sensore della crisi
«La neve è importante anche perché è una sentinella, il sensore climatico perfetto», spiega Michele Freppaz, nivologo e pedologo dell'Università di Torino.
Innanzitutto, perché subisce le vulnerabilità dell'ecosistema più fragile che abbiamo in Italia, le montagne. Proprio come l'Artico, l'arco alpino si sta riscaldando al doppio della media mondiale. L'Osservatorio del Monte Bianco ha recentemente misurato, solo a titolo di esempio, che dagli anni Ottanta il ritmo di riscaldamento nell'ecosistema della vetta più alta d'Europa è stato di 0.2/0.5°C ogni decennio, contro una forchetta di 0.1°/0.2°C di media globale.
Il fenomeno alla base di questo aumento di temperatura peggiore che altrove si chiama feedback positivo ghiaccio albedo. La neve e il ghiaccio hanno un albedo, cioè una capacità di riflettere la radiazione solare, molto alta. Con l'aumento della temperatura, si fondono e la loro estensione si riduce, e quello che rimane è il suolo nudo, che invece ha un albedo più basso e quindi trattiene più calore.
Trattenendo più calore, causa ulteriore perdita di ghiaccio e neve, e quindi il calore trattenuto aumenta sempre di più, si perdono altra neve e altro ghiaccio, così in un circolo vizioso, fino al giorno in cui la Marmolada collassa su un gruppo di escursionisti.
La neve è la nostra sentinella perché risente sia delle precipitazioni - quanta ne cade? - che delle temperature - quanta ne rimane al suolo invece di fondersi?
Una situazione come quella di dicembre e della prima metà di gennaio era la tempesta perfetta per vederla sparire in queste proporzioni: quarantacinque giorni caldi e asciutti.
Verso la siccità
Gli effetti negativi di questa crisi della neve non sono solo per il turismo: con un collasso della copertura e del volume della neve viene innanzitutto intaccata la nostra riserva d'acqua per agricoltura, industria e usi civici (bere e lavarsi).
«La neve sulle Alpi e gli Appennini è fondamentale per la risorsa idrica che sarà disponibile in primavera e in estate», spiega Freppaz, che da studioso del suolo aggiunge anche altri dettagli che magari, in questo panico industriale e idrico, possono sembrare secondari, ma non lo sono affatto.
«La neve è fondamentale per gli ecosistemi di montagna, protegge il suolo, è un ottimo isolante, ospita la biodiversità». Una montagna per un mese e mezzo senza neve tra dicembre e gennaio è un intero mondo che salta.
Il tema cruciale però è quello dell'acqua: è difficile che le precipitazioni dei prossimi giorni possano andare a compensare la povertà di neve con la quale siamo arrivati a metà gennaio, o almeno, per farcela, dovrebbero arrivare a essere enormemente sopra la media stagionale.
Alla metà di gennaio, il rischio è quello di andare incontro a un secondo anno consecutivo di siccità, che significherebbe soprattutto un altro anno di sofferenza per l'agricoltura italiana.
Secondo l'osservatorio Ispra, all'inizio del mese di gennaio lo stato di severità idrica era già al livello medio (allerta livello 3 su scala di 4) per tre distretti idrografici italiani su sette: quello del fiume Po, quello dell'Appennino settentrionale e quello dell'Appennino centrale.
Secondo i dati della Fondazione Cima le precipitazioni nevose di questi giorni, per riportare i bilanci idrici sotto le soglia di allerta, dovrebbero compensare la perdita di 4 miliardi di metri cubi di acqua (suppergiù un quinto di tutta quella contenuta nel Lago Maggiore). Molto difficile che accada.
«L'aspetto più preoccupante», spiega Francesco Avanzi, ricercatore per la Fondazione Cima, «è che nel 2022 la siccità è stata soprattutto un problema di origine alpina sofferto in Italia settentrionale, la mancanza di neve in Appennino ci porta a pensare che rischiamo di avere una situazione critica anche al centro sud nel corso di quest'anno».
La situazione più problematica rimane però quella che collega il fiume Po alle Alpi Occidentali, dai quali quel bacino prende fino al 60 per cento della sua acqua.
Se quel rubinetto si chiude, sparisce il grande fiume italiano, esattamente come è successo nel 2022. E lì continua a nevicare troppo poco: anche per questa attuale ondata di freddo e precipitazioni l'ovest è l'angolo di nord Italia dove è prevista meno neve.
L’acqua dell’estate
Le Alpi iniziano a costruire la loro riserva di neve già a novembre e dicembre, quindi in questo momento sono indietro di due mesi e mezzo verso livelli che siano sostenibili per tutto l'ecosistema italiano.
Il sistema idrico deve essere considerato come un conto in banca, il cui livello si è costantemente abbassato negli ultimi anni, mentre i prelievi sono rimasti invariati, cioè quelli del paese che eravamo decenni fa, costruito su un territorio abbondante di acqua, dove se ne poteva sprecare a volontà senza danni sostanziali.
Oggi, in crisi climatica, non è più così, e il crollo della neve è un monito verso un nuovo sistema di governance e gestione dell'acqua, che era infatti nei programmi elettorali, scritti e venduti durante una campagna fatta d'estate, con la gente preoccupata dalla siccità, e quindi erano pieni di suggerimenti e proposte su nuove infrastrutture, come la rete di piccoli invasi per trattenere l'acqua in modo capillare.
Il tema però è totalmente sparito dal dibattito pubblico, e quando ci rientrerà sarà di nuovo troppo tardi. «La neve che vediamo in montagna d'inverno è acqua che useremo d'estate, quindi la neve che manca ora è acqua che mancherà in estate», spiega Avanzi.
Le montagne nude sono una fotografia di quello che ci aspetta. «Abbiamo ancora due mesi di inverno davanti, in cui possono succedere o non succedere molte cose. Parte del deficit potrebbe essere colmato, ma dobbiamo renderci conto che si tratta di un deficit enorme, e soprattutto del fatto che dobbiamo abituarci a non considerare annate come questa in corso o come quella di siccità del 2022 come delle eccezioni. Questo è il nostro nuovo standard, purtroppo».
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