- Il 2 dicembre 2020 è la data di una storica inversione di marcia della macchina del controllo internazionale sulle droghe, sancita dal voto dell’Onu sulla raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla declassificazione della cannabis.
- La decisione della Commission on Narcotic Drugs dell’Onu cancella due tabù, quello sulla cannabis e quello dell’immodificabilità delle convenzioni, ma anche perché la massima autorità sanitaria mondiale è riuscita a convincere La “Chiesa della proibizione”, che la cannabis non è la “pianta del demonio”, bensì una risorsa terapeutica.
- Eppure, nel Piano d’azione sulle dipendenze (a differenza che nella relazione in parlamento) è scomparso ogni riferimento alla depenalizzazione della cannabis, tema certo inviso alle destre.
Il 27 e 28 novembre 2021, quindi quasi circa un anno fa, si è tenuta a Genova la Conferenza nazionale sulle dipendenze. La sesta per l’esattezza. Erano anni che in Italia, le persone che si occupano di questi temi, la attendevano. Dal 2009.
Prevista dalla legge 309 del 1990, avrebbe dovuto essere convocata ogni tre anni per aggiornare la riflessione e le strategie pubbliche in materia di droghe. Invece, dopo le prime cinque conferenze, a lungo il parlamento italiano si è guardato bene dall’organizzarla, come se il problema non esistesse più.
Si sono succeduti governi di destra e di sinistra ma nessuno, davvero nessuno, ha pensato bene di dare seguito a una norma di legge dello Stato italiano.
Nel frattempo le dipendenze patologiche non solo non sono scomparse ma sono aumentate: la ludopatia è entrata a far parte delle emergenze da affrontare e anche i SerT (servizi per le tossicodipendenze) hanno cambiato nome e ora si chiamano SerD (servizi per le dipendenze) proprio perché in ballo c’è la dipendenza nella sua accezione più larga e non solo la “tossicodipendenza”, la dipendenza da sostanze.
Perché, tuttavia, viene da chiedersi, questo argomento non ha interessato, e continua a non interessare affatto la politica se non in una prospettiva punitiva? Davvero un mistero, poiché in termini cinicamente elettorali ogni famiglia ha, al suo interno, una persona dipendente da qualcosa: fumo, alcol, gioco, e in alcuni casi cocaina eroina, psicofarmaci.
Il problema scuole
Quello della dipendenza dovrebbe essere un argomento da affrontare fin dalle scuole primarie: gli insegnanti dovrebbero essere formati, almeno con alcuni strumenti minimi.
Alle scuole superiori dovrebbe essere discussa seriamente e non delegata esclusivamente all’intervento delle forze dell’ordine che, ovviamente, affrontano l’argomento per gli aspetti che compete loro, ovvero quelli dell’illegalità. Ma è evidente che la dipendenza si sviluppa anche su sostanze o comportamenti perfettamente legali.
Così i ragazzini, per esempio, hanno pensieri confusi perché vedono che consumare alcol, sigarette e persino medicinali è perfettamente accettabili e in sintonia con quello che fanno gli adulti intorno a loro, mentre consumare cannabis non lo è.
Problematizzano la sostanza in sé e non la spinta che li indirizza verso la sostanza. Disabituati a ragionare sulla dipendenza come comportamento a rischio, fumano di nascosto le canne e centinaia di sigarette davanti a tutti.
Si imbottiscono di medicine trovate nell’armadietto di casa, e ci bevono sopra. E così pensano di tenere sotto controllo il problema laddove il problema esiste.
Invece non è così. Di questi temi se ne dovrebbe parlare in famiglia, in TV, normalmente e non solo quando accade qualche disgrazia o il fenomeno si manifesta in modo parossistico. La salute pubblica dovrebbe riguardare tutti e non solo gli specialisti.
Devianze
Anche per questa diseducazione della politica italiana su questi temi la Conferenza per anni non è stata convocata e oggi accade che il futuro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, possa usare tranquillamente una parola che era già vecchia e connotata negativamente negli anni Settanta e che nessuna persona, nemmeno di destra, con una solida cultura politica, userebbe mai in paesi come gli Stati Uniti per esempio, ovvero «devianza» quando si riferisce a comportamenti «a rischio».
Persino l’ex presidente americano George W. Bush, del resto, ha parlato della sua dipendenza da alcol in TV e nessuno si sognerebbe mai di definirlo un deviante.
Dunque, davvero, manca un lessico minimo condiviso in modo trasversale che ci consenta di fare un passo avanti nella soluzione di un problema sempre più urgente. Soltanto nominando le cose in modo corretto, infatti, è possibile vederle e, vedendole, agire per trasformarle.
Il motivo di questa assenza di un linguaggio che assomiglia alle cose che descrive risiede, guardando il problema in un’ottica di lungo periodo, nel fatto che essendo venuto meno un dibattito pubblico di un certo livello, come invece c’era stato negli anni Ottanta e Novanta, si è creato un deserto di parole, concetti, categorie interpretative utili per i tempi nuovi.
Così, quando ha preso la parola una nuova generazione di politici, giornalisti, ma anche comuni cittadini, completamente immemore di quello che si era detto o fatto nel corso degli anni Settanta e Ottanta in Italia e nel mondo, è stato imbarazzante constatare come l’unico strumento analitico a disposizione fosse piuttosto rabberciato e vecchiotto da un lato, dall’altro del tutto fuori fuoco.
Il frutto di memorie antiche, antiche paure (vedi come si è parlato di eroina a Rogoredo) e nuove sollecitazioni da oltre oceano. Un ibrido che serve a ben poco se non a perpetuare convinzioni sbagliate (le droghe sono tutte uguali!) e a generare confusione.
Droga e droghe
Si continua a scrivere, infatti, “droga” e non “droghe”, si parla di narcotraffico come se fossimo esperti biografi di Pablo Escobar perché si sono viste decine di serie su Netflix, ma non si sa niente sullo spaccio sotto casa nostra, si commentano Sanpa o Dopesick su Facebook, e così si pensa di avere chiaro il problema, le sue cause e pure gli strumenti per risolverlo. Ma, incredibile a dirsi, l’Italia non è l’America e non si può ragionare su quello che accade da noi con lenti a stelle e strisce.
Qua l’emergenza oppioidi, per esempio, non c’è stata. Eppure farmaci come Oxycontin (ormai sineddoche del male assoluto in ogni serie tv) sono legali. Questo dimostra che da sola nessuna sostanza è sufficiente a “scatenare l’inferno”.
Solo ragionando seriamente sul contesto in cui viviamo, individuandone caratteristiche e criticità, possiamo pensare davvero di fare qualche passo in avanti.
Dobbiamo, per esempio, ragionare sul sistema sanitario pubblico e cercare di capire se questo ci ha protetto da questa epidemia farmacologica per cui sono morte centinaia di migliaia di persone in America, persone storicamente non ascrivibili all’universo dei “drogati”: giovani studenti liceali, binchi, classe media, campioni in qualche sport, operai di mezza età, casalinghe.
Forse non basta togliere la targa che ricorda le donazioni della famiglia Sackler, produttrice di Oxycontin, dal Metropolitan Museum di New York, per mettere in chiaro chi sono “i cattivi” in questa storia, di chi sono le colpe, come sono andate le cose insomma, come certa pubblicistica ci indurrebbe a fare.
Anche a questo, dunque, servirebbero le Conferenze triennali: a contestualizzare, a fare il punto, a dare strumenti analitici nonché dati su cui lavorare a tutti, politici, giornalisti, comuni cittadini. Sarebbe bello se la prossima Conferenza, per esempio, ospitasse anche il lavoro di ricerca degli storici, per dire.
A questo doveva rispondere la Conferenza di Genova di un anno fa. Ma non mi pare che i risultati siano diventati oggetto di pubblico dibattito in alcun modo.
La fine della legislatura e il silenzio di ogni partito sulle droghe in campagna elettorale ha fatto il resto.
Cosa fare
Eppure a Genova si è messo in chiaro, fra non poche contraddizioni visto che vi sedevano tutti, proibizionisti e non, il fatto che in Italia le urgenze sono fondamentalmente due: cambiare la vigente legislazione antidroga (art. 1, D.P.R. 309/1990), e adottare il nuovo Piano d’azione italiano sulle dipendenze (PAND) presentato alla stampa solo quattro giorni fa.
I motivi per cui la legge del 1990 va modificata li ho esposti nelle settimane scorse in diversi interventi e non ci torno sopra se non per ricordare l’insostenibile situazione delle carceri italiane dove vengono rinchiuse centinaia di persone per reati che il senso comune ormai non ritiene più tali (piccolo spaccio di droghe leggere da parte di consumatori).
Di due giorni fa la notizia per cui anche il presidente americano Joe Biden ha annunciato di voler cancellare i crimini federali per possesso di cannabis . «Migliaia di persone sono in carcere per questo, mettiamo fine a questo approccio fallimentare».
Se Biden, presidente della nazione che ha “inventato” l’ideologia stessa della “guerra alla droga” dice questo, forse siamo davvero di fronte a una svolta epocale.
L’Onu e la cannabis
Una conseguenza del 2 dicembre 2020, un giorno che verrà ricordato per molto tempo, scrive Leonardo Fiorentini nel suo L’onda verde. La fine della guerra alla droga (officinadihank 2021): «È la data di una storica inversione di marcia della macchina del controllo internazionale sulle droghe, sancita dal voto dell’Onu sulla raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla declassificazione della cannabis.
La decisione della Commission on Narcotic Drugs dell’Onu è una pietra miliare sulla strada della riforma, non solo perché sono caduti due tabù, quello sulla cannabis e quello dell’immodificabilità delle convenzioni, ma anche perché la massima autorità sanitaria mondiale è riuscita a convincere La “Chiesa della proibizione”, che la cannabis non è la “pianta del demonio”, bensì una risorsa terapeutica.
Certo è stato molto difficile farlo: due anni di lavoro preparatorio, altri due per arrivare ad un voto risicatissimo, ventisette voti a favore contro venticinque contrari ed un astenuto.
Questo, insieme alla successiva bocciatura delle ulteriori raccomandazioni che l’Oms aveva prodotto, rappresenta la testimonianza che il vento ideologico del proibizionismo soffia ancora forte nel mondo, alimentato da Russia e Cina», ma che forse sta per crollare.
Dov’è la depenalizzazione?
Eppure, nel Piano d’azione sulle dipendenze (a differenza che nella relazione in parlamento) è scomparso ogni riferimento alla depenalizzazione della cannabis, tema certo inviso alle destre, per cui viene da chiedersi se il passo indietro su questo punto sia propedeutico a ragionare sul resto o semplicemente una dichiarazione di resa per cui, caduto il governo che l’ha voluto, del Piano non si saprà più niente.
Il Piano d’azione sulle dipendenze, del resto, non certo in sé rivoluzionario in alcun modo. Si struttura in tre parti: riduzione della domanda (prevenzione trattamento assistenza, riduzione dell’offerta (garantire la sicurezza sociale), affrontare i danni connessi alle dipendenze.
Sulla sua applicabilità la ministra per le Politiche Giovanili Fabiana Dadone, pochi giorni fa, ha manifestato all’Ansa una viva preoccupazione riguardo ai ritardi cronici della situazione italiana in tema di limitazione dei rischi e di riduzione del danno.
«Il nostro Paese da questo punto di vista non è fra i più aggiornati e anche attraverso il confronto con gli esperti dell'Emcdda che hanno preso parte ai lavori del Pand è emerso forte il bisogno di sperimentare l'efficacia di alcune tipologie di servizi ad oggi poco presenti o del tutto assenti: drug checking e sperimentazioni delle stanze del consumo, fanno parte delle proposte emerse. Un approccio al tema del consumo tra medico e culturale che è presente in realtà come Svizzera, Germania, Spagna, Francia, Paesi Bassi o in Norvegia».
Il piano, senza dubbio, risente della mancanza di una visione unitaria anche perché hanno concorso a scriverlo 271 esperti del settore in rappresentanza di tutte le reti dei servizi pubblici e del terzo settore. Malgrado questo, che potrebbe apparire un limite, il piano è un punto di partenza ineludibile, coerente con le linee guida in materia di dipendenze elaborate in sede Ue.
Secondo Hassan Bassi, esperto che ha partecipato ai lavori per conto di Forum droghe: «Dovremmo sicuramente ripartire da lì. Soprattutto per quanto riguarda quelle azioni previste di Riduzione del danno che hanno ormai dimostrato la loro efficacia in termini di sicurezza e salute pubblica diffuse in tutta Europa, come il drug checking e le stanze per il consumo sicuro. Il piano rilancia anche l’esigenza di un approccio multi attore dei servizi sociali e sanitari che sappia valorizzare il protagonismo dei destinatari, senza il quale è ormai acclarato, gli interventi sono autoreferenziali e inefficaci».
Che cosa ci dobbiamo aspettare dai prossimi mesi, dunque, appare avvolto nella più totale incertezza. Si andrà avanti nella direzione indicata a Genova? Ci si allineerà alle indicazioni del presidente Biden? A quelle dell’Unione europea in tema di riduzione del danno?
Oppure si farà di nuovo, ancora una volta, finta di niente. Continuando a punire chi usa sostanze senza alcun altro tipo di intervento andando ad allungare le vittime nostrane di quella guerra alla droga che ormai, a quanto sembra, hanno rinnegato anche i suoi padri fondatori, constatandone il fallimento?
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