Roma, 10:40 del mattino del 4 novembre 1922. Davanti al grande monumento del Vittoriano arriva l’auto del Presidente del Consiglio dei ministri. A scendere è Benito Mussolini.
Al suo fianco, il generale Armando Diaz, duca della Vittoria e nuovo ministro della Guerra, e il grande ammiraglio Thaon di Revel, ministro della Marina. Mussolini raduna i suoi, e con passo lento sale le scalinate che portano al sacello del Milite Ignoto.
Le truppe presentano le armi, la folla lancia acclamazioni entusiastiche, dalla piazza giungono le note della canzone del Piave, vedove di guerra piangono commosse, vecchi reduci salutano sull’attenti.
È un’apoteosi per il nuovo capo del governo, nominato appena cinque giorni prima. Protagonista assoluto della cerimonia (il re non è presente), in piedi davanti alla tomba del caduto più caro al cuore di tutti gli italiani, Mussolini rappresenta la nazione.
Mussolini diventa l’Italia. Quella dell’intervento in guerra nel 1915, delle battaglie sull’Isonzo, del sacrificio ma anche dell’orgoglio, di cui il Milite Ignoto è il simbolo. Soprattutto, della vittoria del 1918. L’Italia di Vittorio Veneto.
Come è stato possibile
Come è stato possibile? Esattamente tre anni prima, il nuovo salvatore della Patria era solo il capo di un minuscolo movimento, i Fasci italiani di combattimento, che lui stesso aveva fondato a Milano il 23 marzo 1919 nel corso di un’adunata a cui avevano partecipato forse trecento persone, tra veterani di guerra, qualche futurista, alcuni ex socialisti, sindacalisti e repubblicani, molti dei quali spariranno ben presto.
Con un programma ideologico confuso, battuti rovinosamente alle elezioni politiche, di lì a qualche mese i Fasci sembravano destinati a diventare uno dei tanti gruppuscoli radicali pronti a difendere con le unghie e con i denti l’eredità morale della guerra, ma fondamentalmente irrilevanti e sempre prossimi all’estinzione.
Nell’autunno 1922, il Partito Nazionale Fascista, che da quel piccolo movimento senza speranza era nato, contava più di 300mila membri attivi e si era dotato di una propria milizia armata, composta da migliaia di uomini, con cui sfidava quotidianamente le leggi dello Stato per difendere, così sosteneva, i simboli nazionali e per lottare contro i fanatici ammaliati dal mito della rivoluzione bolscevica: fondamentalmente, per ottenere il potere, l’unica aspirazione che mettesse d’accordo le sue litigiose anime.
Rifondare il paese
Certo, nell’Europa del dopo 1918, la nascita di un movimento di veterani arrabbiati che credevano di avere la missione di rifondare (e guidare) il proprio paese non era certo una rarità, come non lo era l’organizzazione di bande armate che ai capi di quei gruppi radicali obbedivano (più o meno).
Risolvere le vertenze politiche con l’uso della violenza armata era diventata la regola, più che l’eccezione, in molti paesi usciti dal conflitto mondiale.
La prima guerra totale non aveva solo mobilitato industrie, popolazioni ed eserciti, ma propaganda e stati d’animo, finendo per scatenare l’odio radicale verso il nemico come un’arma per sostenere il consenso a una lotta sanguinosa e apparentemente senza fine. Ma l’odio non era facile da smobilitare.
Gli armistizi del 1918, e le paci siglate a Parigi dal giugno 1919 in avanti, non avevano posto fine al parossismo di violenza che aveva contaminato gli europei.
Guerre clandestine scatenate per difendere i vecchi confini cancellati dai trattati dei vincitori, miti rivoluzionari da inseguire a costo di sterminare migliaia di concittadini e guerriglie politiche all’interno dei confini, dove l’eliminazione dei propri avversari era un prezzo da pagare volentieri per conquista del potere.
In un modo o nell’altro, la Grande guerra era stato un laboratorio antropologico per gli abitanti di un continente militarizzato da tempo ma in cui la maggior parte dei cittadini (o sudditi)-soldato non aveva mai davvero visto un campo di battaglia e non sapeva usare efficacemente le armi.
Anche se la formula coniata dello storico americano George Mosse sulla «brutalizzazione dei costumi» (gli anni nelle trincee avrebbero assuefatto gli europei alla morte, alla sofferenza e all’uso della violenza) è stata spesso criticata e ritenuta semplicistica, non ci sono dubbi che prima del 1914 milioni di maschi adulti europei in uniforme non avrebbero saputo come (o avuto il coraggio di) togliere una vita, mentre dopo il 1918 gli stessi maschi adulti (se erano sopravvissuti) lo avrebbero fatto con molta tranquillità, per uno dei grandi obiettivi ideologici in nome dei quali erano stati bombardati psicologicamente per anni da mass media invadenti, isterici e striduli.
O anche, semplicemente, per abitudine. Una differenza abissale che la maggior parte degli storici italiani non ha capito.
L’assuefazione alla violenza in guerra non fu uguale ovunque. Furono i paesi sconfitti a scoprire che uscire dalla cultura dell’odio, dalla mobilitazione quotidiana per la lotta, non era facile.
In Germania o negli Stati successori della vecchia Austria-Ungheria, l’idea che la sconfitta fosse il frutto di un vasto tradimento da parte dei cosiddetti «nemici interni» (normalmente identificati con i socialisti o i democratici), e che la rivincita fosse un sacro dovere di ogni patriota, si diffuse sull’onda dello scontento e della frustrazione, e prese le sembianze di movimenti di estrema destra convinti di dover prendere il potere con ogni mezzo, eliminando gli avversari con la forza, prima di poter rendere di nuovo grande la propria nazione.
I grandi sconfitti
Le umiliazioni dei vinti, la loro incapacità di accettare la disfatta e iniziare una nuova storia, furono il primo fattore a destabilizzare il sistema europeo creato dai vincitori, e in definitiva a gettare i semi del conflitto successivo.
Il problema era che frustrazione, scontento e desiderio di rivalsa si impossessarono anche degli italiani, che pure la guerra l’avevano vinta (almeno formalmente). Con i grandi sconfitti, il Regno d’Italia aveva alcune bizzarre somiglianze.
Per dirne una, aveva ottenuto dalla vittoria dei confini controversi, quelli a nord est, che comprendevano vecchie promesse, formulate nel 1915 quando Roma si era impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa, e nuove richieste tutt’altro che scontate.
La disputa su questi confini difficili avrebbe generato una buona dose malcontento e di rancore, proprio contro i vecchi alleati poco o punto persuasi dei buoni diritti accampati dai governanti italiani su molte di quelle terre (soprattutto, la città portuale di Fiume).
E poi, l’Italia vantava il poco invidiabile primato di essere la potenza entrata più divisa nella Grande guerra. Tra 1914 e 1915, la lacerazione tra chi voleva partecipare al conflitto mondiale e chi no, tra interventisti e neutralisti, aveva portato a una guerra civile che aveva bensì fatto pochi morti, ma che aveva in compenso lasciato uno strascico di odio dietro di sé, e la convinzione che la resa dei conti tra patrioti, che credevano alla grandezza imperiale della nazione, e traditori disfattisti, non fosse che rinviata.
Era una frattura che la vittoria finale e l’annientamento dell’Austria-Ungheria, il vecchio nemico del Risorgimento, non aveva cancellato né attenuato.
Camice nere a Roma
In questo paese squassato da vecchi e nuovi conflitti interni, in cui la sensazione dominante era quella di una sconfitta e non di un trionfo, il movimento fascista, con i suoi membri violenti e rancorosi, il suo programma nebuloso, i suoi improbabili leader e la sua permanente disponibilità a usare la forza contro ogni possibile «nemico della patria», invece di scomparire nel ridicolo (o essere stroncato dalle forze di polizia) crebbe e prosperò.
Fino a che, il 28 ottobre 1922, migliaia di suoi militanti, con addosso una camicia nera e armati, cominciarono a sciamare in direzione della capitale, convinti che fosse arrivato il momento di strappare al decrepito Stato liberale il potere a cui avevano diritto come rappresentanti di una nuova nazione, migliore, più grande, rigenerata dal sacrificio dei combattenti e dal sangue. L’Italia di Vittorio Veneto, appunto.
Non avrebbero avuto una sola possibilità di farlo veramente. Come ogni milizia politica creata nella turbolenta e inquieta Europa tra 1919 e anni Venti, anche le unità paramilitari del partito fascista (le squadre) potevano aggredire avversari politici impreparati o disarmati, ma non certo affrontare uno scontro aperto con reparti regolari.
Eppure, il destino di questi militanti dall’aspetto brigantesco, non fu quello di venire arrestati o presi a cannonate, come era accaduto ad altri legionari (quelli del vate e ribelle Gabriele D’Annunzio) appena due anni prima a Fiume.
Al contrario, il loro capo, che la «marcia su Roma» la seguiva prudentemente a distanza, venne invitato da Sua Maestà il re a diventare il nuovo presidente del Consiglio dei ministri. Il 31 ottobre 1922, veniva costituito il primo governo Mussolini.
Colpo di stato o rivoluzione?
Furono i contemporanei a chiedersi per primi cosa fosse esattamente successo. Gaetano Salvemini, uno degli storici più brillanti e un testimone penetrante di quegli anni, scrisse nel suo diario poche settimane dopo che «quella del 28 ottobre [era] stato un colpo di stato militare mascherato da una pseudorivoluzione civile».
L’ipotesi di complotto dei generali ambiziosi e reazionari, in collaborazione o meno con membri della corte reale, avrebbe avuto un certo successo negli anni a venire.
Sarebbe stato d’accordo Emilio Lussu, un veterano delle trincee e deputato sardo destinato a una lunga militanza antifascista che sulla marcia su Roma (e dintorni) avrebbe scritto una memoria non propria lucidissima ma destinata a largo successo editoriale in età repubblicana. E Angelo Tasca, che della genesi della dittatura fascista avrebbe scritto di lì a qualche anno la prima (e per molti aspetti ancora fondamentale) storia, l’avrebbe condivisa.
Altre teorie su congiure più o meno fantasiose si sarebbero accumulate in seguito, dalle trame della massoneria i cui capi (si vociferava) avrebbero fatto pressione su re Vittorio Emanuele III, fino alla cospirazione dinastica, con il duca d’Aosta, cugino mal amato del sovrano, pronto a sostituirlo e a sedersi sul trono casomai dal Quirinale fosse arrivato l’ordine di difendere la legalità e di far sparare sui (cosiddetti) rivoluzionari.
Voci e fantasticherie non spiegavano mai davvero il successo di quella che ad altri testimoni, come l’esule e futuro scrittore Ignazio Silone, sarebbe sembrata soprattutto una farsa travestita da rivoluzione («la rivoluzione in vagone letto», come l’avrebbe definita).
Il problema era che la «farsa» aveva riscosso un enorme consenso, e non solo quello dei militanti esagitati armati di manganello ed entusiasmo che nell’autunno 1922 erano stati mobilitati in tutta la penisola per spazzare via la vecchia classe dirigente liberaldemocratica inetta e corrotta e fondare la nuova Italia.
La farsa presa sul serio
Non sorprendentemente, la cosiddetta «marcia su Roma» non ha cessato di attirare l’attenzione nei cento anni successivi. L’ottobre 1922 fu un evento traumatico per gli italiani.
La dittatura che si sarebbe rapidamente affermata dopo quella data aveva promesso grandezza e prestigio, orgoglio e destini imperiali, anche se alla fine avrebbe portato soprattutto repressione, molte carceri, tanta ambizione e una guerra rovinosamente perduta (un lascito quantomeno bizzarro per un regime guerriero che si era impegnato a fare dell’Italia una grande potenza).
L’impatto così devastante di quella cosiddetta «farsa» spiega perché agli eventi di quei giorni siano state dedicate molte, moltissime pagine, dalle testimonianze dei contemporanei (coloro che vissero la marcia marciando, e anche chi stava dall’altra, si convinsero velocemente di aver preso parte a una svolta epocale) ai lavori degli storici.
Antecedenti immediati, ragioni politiche, piani, protagonisti, possibilità e dubbi della «marcia» sono stati analizzati in un ragguardevole numero di studi l’ultimo dei quali, a firma del più celebre storico del fascismo italiano, Emilio Gentile, è un convincente esempio di come si possa compendiare ricerca solida e abilità narrativa.
Tuttavia, la «marcia su Roma» non fu (e non è) un problema solo italiano. Non solo perché il trionfo del fascismo scatenò in Europa un desiderio di emulazione tra molti aspiranti autocrati di estrema destra («l’effetto fascista», come è stato definito) il cui primo esito (ma non l’unico) fu il grottesco Putsch di Monaco del 1923, che costò a Adolf Hitler processo e (sfortunatamente poco) carcere.
Ma anche, e forse soprattutto, perché per comprendere come mai Mussolini e i suoi si videro cedere il potere invece di essere spazzati via (in fondo, il Regio esercito aveva sparato con una certa disinvoltura a ribelli molto più nobili, a partire da Garibaldi) è necessario leggere la genesi del fascismo nel contesto di una storia transnazionale, quella della guerra totale e della capacità di plasmare menti e cuori degli europei sviluppata da un capillare sistema informativo e propagandistico creato per un unico scopo: mantenere alto il consenso al conflitto.
Effetto guerra
Sono stati pochi gli storici italiani in grado di guardare alla conquista del potere da parte del fascismo come la variante italiana di un problema comune nel continente: la mancata uscita dalla logica dell’odio e della crociata tipica della mobilitazione culturale tra 1914 e 1918, che travolse molti paesi e segnò molti destini.
Nella maggior parte dei grandi affreschi sulle origini del fascismo, la guerra è un convitato di pietra, del resto, e del suo poderoso impatto sull’immaginario degli europei si capisce assai poco.
Eppure, quotidiani e cinema, scrittori e retori di piazza, poeti e ufficiali addetti alla propaganda avevano persuaso per anni milioni di uomini che effettivamente, come era stato insegnato loro fin dai banchi di scuola, combattere e morire era nobile e degno, che il nemico era la fonte irriducibile di ogni male e che andava annientato per la salvezza di tutti.
Nella fucina della nuova guerra in cui le parole e le immagini contavano più delle armi, in Italia come altrove, si elaborarono progetti nuovi su cosa la nazione fosse, e su chi avesse il privilegio di farne parte: patrioti e no, combattenti e no.
Non sorprendentemente, quanto i veterani tornarono a casa, molti di loro erano convinti di avere il diritto, anzi il dovere, di assumere la guida del paese, scacciando (o annientando) tutti coloro che non ne erano più degni. La guerra sarebbe finita veramente solo allora.
Prodotto malsano della logica manichea e brutale della guerra totale, i fascisti erano ossessionati dal potere, e dalla possibilità di redimere la nazione e trasformare gli italiani, anche a costo di sterminare tutti coloro che non erano d’accordo con loro.
Come molti altri movimenti e partiti radicali saliti alla ribalta nella turbolenta scena europea dopo il 1918, erano convinti che le vecchie élite avessero perduto ogni diritto di gestire il potere, andassero soppiantate e possibilmente eliminate: lo proclamavano in nome di un nazionalismo esasperato e non del sol dell’avvenire e della rivoluzione bolscevica, ma la sostanza violente del loro programma era la medesima.
Era una richiesta di potere, ma anche la pretesa di un nuovo ordine. Le armi non sarebbero state deposte, fino al compimento di questa missione.
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