Noi eravamo di più di una provincia importante; eravamo la roccia dei Corleonesi, come dicevano alcuni boss amici nostri. La roccia. Talmente alta, robusta, fiera, che era davanti agli occhi di tutti… e nessuno se ne accorgeva. Perché qui Bernardo Provenzano e Totò Riina erano come a casa loro, perché come diceva Giovanni Brusca: «Tra Riina e i trapanesi era tutta una persona».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.
Perché noi siamo una provincia importante, in Cosa nostra lo sapevano tutti. A Palermo c’erano gli interessi e i proprietari, la plebe e i capitali, sì, ma la mamma era qui, qui era la luna rossa gonfia di attese, qui era l’abbondanza che ci raccontavamo sin nei nostri cunti di bambini, seduti in giro la sera, al chiano.
Noi ad esempio eravamo quelli che sapevano raffinare la droga e la portavano fino all’America, come se mandassimo baci alle bocche dei nostri cugini dall’altre parte dell’oceano. Ed era anche per questo, perché avevamo la storia e le riverenze, i santi e l’intelligenza, sapevamo le preghiere e come esaudirle. Ed era anche per la luna e per i baci, per la mamma e la sua potenza rigeneratrice, che i palermitani per primi sapevano che era questa la provincia con la quale bisognava comunque fare i conti.
Per i santi e per i loro miracoli, che a noi quello che piaceva più di tutti in realtà era un angelo, San Michele Arcangelo, che non a caso è l’unico santo con la spada. Sapeva il fatto suo, Michele nostro. E noi rispettavamo i santini e la chiesa, perché la chiesa rispettava noi, ci accoglieva e capiva che eravamo gente d’onore. Gente che sapeva – e sa – qual è il valore delle regole.
Lo stesso zio Ciccio, il padre di Matteo, non era stato per un periodo latitante in una canonica? Ma lui, a differenza di altri, non teneva in mano libretti di salmi e rosari, né si faceva il segno della croce prima di uccidere qualcuno.
Noi sapevamo dosare per bene il cemento e le pallottole, i segnali e soprattutto le parole. Ci tenevamo alla larga dagli scandali. Ed era proprio una delle prime cose che i Messina Denaro ci avevano insegnato: non si deve parlare di noi. Non ci piace. Dobbiamo essere furbi, intelligenti – ci diceva Matteo. La gente deve pensare che siamo ladri di polli.
A voi non deve interessare come vi vedono, ma chi siete. E lo sapete, chi siete. Lo sapevano i vostri padri, e prima di loro i vostri nanni, lo sappiamo da più di cento anni. Eravamo quelli che lavoravano nel fango dei campi, che si spezzavano la schiena per raccogliere l’uva, e adesso voliamo in business class e i locali fanno a gara per averci come clienti.
Abbiamo passato due guerre mondiali, venti anni di fascismo, il pentapartito, il terrorismo, Mori e Dalla chiesa, la Dc. E siamo pronti a tutto. Lo sapevano anche i Corleonesi, spietati, che fecero la guerra di mafia, e dall’aprile di quell’anno 1981 cominciarono sistematicamente a sopprimere le famiglie palermitane: Badalamenti, Bontate, e poi chi?, ah, Riccobono, Inzerillo, e i parenti, gli alleati, gli amici.
Non si capiva più nulla. I soldi della droga avevano trasformato tutto. Noi stavamo a guardare: le alleanze, i complotti, i tradimenti, le esecuzioni. Le cose tinte. La mamma ci diceva: state attenti figli miei, nascondetevi qui, sotto la mia sottana, è come la puntura del dottore: fa un po’ male, ma ti fa passare la bua.
A farsi male dalle nostre parti furono i perdenti: i Buccellato, come i Rimi, i Minore. Diavolo di un Salvatore Riina; sembrava avesse un’orchestra che al posto degli strumenti ci avevano le lupare e le corde, le pistole e l’esplosivo, e quella cosa che lui chiamava Pocket Coffee, l’attacco fatto con furia cieca e colpi di kalashnikov.
E vennero anche da noi, a fare la guerra. In tre anni, dal 1981 al 1984, ci fu un repulisti di tutti coloro che non si erano schierati con i Corleonesi. E qui ci dovete scusare, ma ci vuole una parentesi, una parentesi di quelle importanti, per un senso di giustizia che si deve anche dentro Cosa nostra: non è vero che noi ci siamo schierati con i Corleonesi per sopravvivere, no.
È un po’ come quando giocate con il vostro gatto. Se pensate con la testa del gatto, è lui che gioca con voi. Ecco, e se pensate con la nostra testa, vi può apparire chiaro che in realtà noi li seducemmo, quelli di là, sì, fu una specie di corteggiamento. Prima regola: mai chiamare per primi, come in amore. Farsi desiderare.
Ci vennero a cercare, e ci negammo, all’inizio, per aumentare il desiderio. E così combinammo la zitata. E poi approfittammo dei Corleonesi per fare pulizia, come quando la mamma ti rimprovera che hai la camera in disordine (e questa strategia Matteo la stava già imparando, eccome se l’ha imparata, sono stati gli stessi Corleonesi a farne le spese…).
Una provincia “sconosciuta”
Perché poi noi avevamo un grande vantaggio: eravamo sconosciuti. Di noi non parlava nessuno, non facevamo notizia, non si conosceva nulla, non ci venivano a cercare. Solo qualche sbirro, con qualche confidente, che quelli ci sono sempre – se no che sapore c’è nelle cose? – aveva fatto dei rapporti, aveva alzato un sopracciglio. Ma niente, tutto veniva insabbiato.
I cani rimanevano attaccati, come dicevano i palermitani quando parlavano di noi, non senza una punta di invidia, dato che provenivano da una città, Palermo, che – come ricordavano tra noi quelli più studiosi – era la città più espugnata della storia; prima dai fenici, poi dai romani, e dai cartaginesi, e dagli arabi, dagli spagnoli, e dai napoletani, e da Garibaldi, e dai Savoia, e dagli americani… Da noi, invece, tutto tranquillo.
Già: i cani rimanevano attaccati alle loro catene, accontentandosi di qualche osso, qualche polpetta di carne, a volte anche avvelenata. E non per volontà. Non avevamo bisogno, come gli altri, di avere amici a Roma, a Palermo, e corrompere giudici, avvocati, minacciare sbirri.
Tutto avveniva in modo – diciamo così – naturale, quasi che la regola del silenzio, la nostra regola, fosse in realtà un modo di vivere, in questa provincia nostra. Anche perché non avevamo pentiti. Buscetta, Contorno, Calderone, Marino Mannoia, tutti quei grandi nemici di Cosa nostra, che avevano consumato famiglie e cristiani, che cosa sapevano di noi? Nulla.
Sì, qualche riunione, qualche incontro, e la droga, ma poi arrivati al busillis del loro racconto la memoria in qualche modo si perdeva, come una specie di buco nero che inghiotte ogni reminiscenza.
Con orgoglio, qui ci piace ricordare una cosa che dimostra che in Cosa nostra la reputazione non sempre coincide con la posizione effettiva di un uomo all’interno dell’organizzazione. Negli anni Cinquanta c’era Calogero Vizzini, Don Calò, che era considerato il capo dell’intera Sicilia. E invece il capo della Commissione regionale, ai suoi tempi, era Andrea Fazio, che nessuno conosceva.
Certo, era di Trapani! Solo dal 1993 in poi ci fu la nostra scoperta, che fu un po’ come quando si gioca a carte a Natale ed esce il re: cucù! E arrivarono nuovi pentiti: Di Maggio, Di Matteo, La Barbera, con memorie più fresche, perché erano stati molto dalle nostre parti e cominciarono a riempire pagine sulle «vicende mafiose trapanesi» – come scrivevano i giudici – o ancora su «organigrammi e dinamiche criminali della provincia trapanese». Ma ormai era già tardi.
Quello che doveva essere fatto era fatto, agnello e sugo e finiu ’u vattiu, come diciamo noi, Matteo Messina Denaro era già latitante. Amen. Noi eravamo di più di una provincia importante; eravamo la roccia dei Corleonesi, come dicevano alcuni boss amici nostri. La roccia.
Talmente alta, robusta, fiera, che era davanti agli occhi di tutti… e nessuno se ne accorgeva. Perché qui Bernardo Provenzano e Totò Riina erano come a casa loro, perché come diceva Giovanni Brusca: «Tra Riina e i trapanesi era tutta una persona». [...]
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