Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Sbagliammo un bivio e invece di sbucare sull’autostrada per Mazara, arrivammo a Corleone. Le case aggruppate sulla cima della collina, la strada tortuosa che sale da una piazzetta all’altra, i vicoli stretti che si perdono tutti verso l’alto, gli uomini immobili sui marciapiedi dinnanzi ai piccoli bar, una sensazione di tristezza inerte. Ricordai quello che dieci anni fa mi aveva detto qualcuno, indicandomi dagli scuri di un balcone quella gente immobile negli angoli della piazza.

Io avevo detto: «Sembrano morti!» ed egli aveva sorriso: «Sì, in realtà sembra che in questo paese non accada mai niente: la gente sta immobile lungo i marciapiedi, pare che aspettino tutti qualcosa che invece non accade mai. Gli uomini neri e, in fila, i volti delle donne immobili dietro i vetri dei balconi. La verità è che tutto accade dentro le persone, nell’anima voglio dire…» Era un uomo vecchio, con i capelli bianchi, il volto affilato, quasi tagliente e tutti lo ritenevano estremamente saggio e potente.

Aveva fatto un piccolo gesto: «Scelga un uomo qualsiasi! Guardi, immobile su quella sedia, dinnanzi al bar, scruta quelli che passano, ascolta, ogni tanto dice una parola, sembra davvero quasi morto, ma se potesse guardargli dentro… quale torrente di desideri e di passioni! Quale sottigliezza e perfidia, e prudenza di ragionamenti, collera, odio, violenza… Anche questo è vivere!»

Erano i tempi di Luciano Liggio, le sparatorie fulminee in mezzo alla strada, cinquemila persone brulicavano nel centro del paese, due colpi di lupara improvvisi, una raffica di mitra, nel giro di pochi secondi non restava più nessuno, solo uno o due morti con la faccia insanguinata contro il selciato. Sono trascorsi più di dieci anni, ma ogni cosa sembrava esattamente la stessa, gli uomini sempre silenziosi e immobili, qualche volto di donna dietro i vetri del balcone, i vicoli deserti che si perdevano verso l’alto.

All’uscita del paese, una piccola folla lungo la scarpata, una decina di carabinieri, un morto ai margini della strada, il petto sfondato da due colpi di lupara, un filo di sangue dal naso, le braccia spalancate, le gambe spalancate. Era morto in modo davvero spettacolare, la lupara gli aveva dovuto far fare un balzo di almeno due metri. Pensai: «Anche l’anima della gente è rimasta la stessa, anche i pensieri. Un giorno o l’altro voglio tornare qui per capire!»

Arrivammo a Mazara del Vallo. Rassomiglia ad Augusta, cioè una città piccola costipata e stravolta da un lavoro incessante e febbrile. Le case, le strade, gli spazi sono quelli di un paese, ma le urgenze, i bisogni, il ritmo quelli di una città, una popolazione che sembrava straripare dal suo habitat, come da un vestito stretto che lo soffoca e si va lacerando da tutte le parti.

I bar ed i ristoranti l’uno appresso all’altro, migliaia di auto da tutte le strade in un grande caos, una moltitudine che trascorre ininterrottamente, la selva delle insegne, la presenza costante del mare, il suo colore scuro, l’odore fetido delle alghe e della nafta. Solo che ad Augusta ci sono gigantesche navi, immobili lungo la rada, dirimpetto ad una costa disseminata di ciminiere, torri metalliche, fiamme e qui invece centinaia di piccole e strane navi si affollano l’una quasi sull’altra; il porto si affonda come un grande fiume nella terra e questo groviglio di navi sembra stia proprio in mezzo ai palazzi, alla gente, al traffico furioso delle auto.

Questo è il più grande porto peschereccio di tutta Italia: cinquemila esseri umani che lavorano nel settore della pesca, quasi cinquecento navi, quasi tutti pescherecci di altura, che possono battere tutto il Mediterraneo e stare in mare anche per mesi. Duecento miliardi di pesce in un anno, un benessere che crea altro benessere, soldi che passano continuamente di mano, macellai, droghieri, commercianti, professionisti, medici, muratori, artigiani, sarti.

Mazara è anche la città italiana che ospita più africani di qualsiasi altra: su quarantacinquemila abitanti oltre cinquemila vengono dal Nordafrica, la maggior parte dalla Tunisia. Si trovano dovunque, sulle navi, nei caffè, nei vicoli del centro, sui moli, sembrano inseriti perfettamente nella popolazione, non è tanto il colore della pelle a distinguerli, quanto gli occhi grandi e nerissimi, quei baffetti di peluria, le grosse labbra scure.

Taluno ha ancora il vecchio fez rosso. Un centinaio di loro si sono sposati con donne di Mazara. Lavorano sulle navi, nelle piccole fabbriche di congelazione, nei cantieri edili, persino come braccianti nelle campagne e nei vigneti, giocano a pallone, a bigliardo, hanno imparato persino la briscola e il tressette, parlano un siciliano stretto e affannoso, con le sillabe finali letteralmente divorate, fra i denti. E sono allegri. Guadagnano esattamente quanto un marinaio di Mazara, cioè talvolta anche cinquecento o seicentomila lire al mese.

È incredibile che in un territorio umano che induce centinaia di migliaia di miserabili e disperati ad affrontare lontananze terribili, Belgio, Australia, Venezuela, Sudafrica, per andare a guadagnarsi la vita, possa esserci poi una piccola città dove migliaia di altri esseri umani arrivano addirittura da un altro continente e trovano soluzione alla loro infelicità.

Andammo a trovare il sindaco comunista di Mazara. È un ingegnere, pallido, giovane, calvo, sommesso, il quale mette le parole l’una appresso all’altra in perfetto ordine logico. Non ne sgarra una: «Certo, questo potrebbe sembrare un paese di gente quasi felice, ed in effetti per qualche tempo così fummo convinti. Lavoravano tutti, la pesca era una miniera senza fondo, e chi non era pescatore godeva di quelle continue ondate di denaro che arrivavano dal mare. Commercianti, tecnici, negozianti, professionisti, costruttori.

L’inganno era proprio quello di credere che un paese, una popolazione, possano vivere appagati in un territorio che invece è continuamente percorso da fremiti di infelicità, la fame, la disoccupazione, i grandi problemi sociali. Quando arrivò la grande crisi qui a Mazara molti nemmeno se ne accorsero. Cos’era infatti la crisi, dov’era? Il mare continuava ad essere sempre pieno di pesci. Negli altri paesi era cominciata la lotta per fronteggiare l’improvvisa, dilagante povertà collettiva, le restrizioni, le rinunce volontarie, una preparazione anche psicologica a reagire. E noi continuavamo a vivere senza spavento.

Qui a Mazara ci fu la corsa alla seconda casa, la villa in campagna o al mare; per poter costruire subito e dovunque e comunque, non si varò nemmeno un piano di fabbricazione edilizia che avrebbe quanto meno frenato o stroncato le speculazioni. Il piano veniva studiato, poi riformato, poi bocciato e rifatto, e intanto tutti potevano costruire comunque e dovunque. Uno spreco tragico di denaro e di fantasia. Avremmo potuto costruire una città nuova, moderna efficiente, con tutti i servizi sociali e invece abbiamo devastato, sporcato, distrutto. A questo punto è arrivata la crisi, prima qualche morso fastidioso, poi qualche mazzata, poi una gragnuola di colpi da tutte le parti…» Il sindaco si concede solo un attimo alla sua vanità, quando il fotografo gli punta l’obiettivo, si assesta dietro al tavolo, la sua malinconia diventa un bel sorriso.

Un attimo appena: «I materiali di costruzione avevano prezzi doppi o tripli, tutta l’attività edilizia si paralizzò di colpo, improvvisamente ci accorgemmo che avevamo anche centinaia di disoccupati, erano proprio i figli dei pescatori e dei contadini che i padri avevano voluto mandare a scuola per farne ragionieri, maestri, medici, avvocati, geometri ed ora avevano la dignità del diploma e della laurea, erano stati promossi di dignità sociale, e non avevano una lira in tasca. I manovali e i carpentieri erano tornati ad imbarcarsi sui pescherecci, ma quei giovani restano un peso morto dentro questa città che è cresciuta deforme, brutta, priva dei servizi essenziali, ed ora guarda con paura gli equipaggi dei pescherecci, poiché li vede sempre più vecchi, una generazione che comincia drammaticamente a logorarsi.

O perché crede ci siano tanti africani qui? Che accadrà fra quattro anni, dieci anni, o semplicemente il giorno in cui i governi africani impediranno a queste migliaia di ragazzi avventurosi e poveri, di arrivare fino alla Sicilia? Questo è un incubo! La verità è che, senza nemmeno rendercene conto, abbiamo cominciato a tradire il mare!» In realtà può accadere anche fra un anno o domani.

Fra l’Italia e la Tunisia esiste un accordo internazionale in base al quale l’Italia paga quasi tre miliardi e quel governo africano concede in cambio duecento permessi di pesca nelle sue acque territoriali. Ogni tanto finisce a cannonate e quasi sempre abbiamo torto.

Tutte le nazioni della costa nordafricana hanno infatti leggi modernissime che indicano le zone concesse alla pesca, vietandola implacabilmente in altre acque destinate a vivaio marino e ripopolamento ittico del Mediterraneo. Sono leggi civili e giuste che l’Italia non ha saputo mai darsi. In Sicilia si pesca dovunque, con qualsiasi mezzo, con le bombe, con i veleni, gli esplosivi, le micidiali reti di nylon che, per catturare un quintale di sardine, sterminano milioni di invisibili neonati. Storicamente le parti si sono invertite: siamo noi, ora, i predoni ed i razziatori.

Oltretutto siamo sempre in ritardo nel rinnovare gli accordi internazionali; una volta c’è la crisi politica, un’altra il ministro è all’estero, un’altra ancora cominciamo a litigare sul prezzo. Quando ci inseguono a cannonate, facciamo persino finta di incazzarci, invochiamo che il governo mandi due incrociatori lanciamissili contro le motovedette africane.

Da qualche tempo la Tunisia ha bloccato le rimesse di denaro di tutti i suoi cittadini che, imbarcatisi con passaporto turistico, sono venuti ad intanarsi subito a Mazara per trovare lavoro sui pescherecci, Per mandare un po’ di soldi alle loro disperate famiglie, debbono spedirlo ad altri amici o parenti che stiano in Francia o in Spagna e da una frontiera all’altra il denaro si logora e disperde, in tangenti, percentuali, contrabbando di valuta.

Spesso uno di questi ragazzi africani, con il suo sacrificio, dovrebbe mantenere una famiglia di dieci, quindici persone accampata ai margini di un deserto. Chiamiamone uno, che sta lavorando alla murata di un peschereccio. Magrissimo, le mani sottili quasi femminee, una grande testa crespa, due tenerissimi baffi, sembra una specie di Omar Shariff dei poverelli. Si chiama Mohamed Chaabane, sbarcò in Sicilia cinque anni fa, ed ora ne ha solo ventuno.

Cinque anni sempre sul mare, ha fatto il mozzo, il pescatore, il macchinista, durante un viaggio si innamorò della cuoca austriaca di un mercantile, Juanita, e se l’è portata a Mazara come moglie. Abita in una vecchia casa del centro storico, una specie di kasbah di vecchi palazzi e tuguri che i benestanti indigeni hanno abbandonato e dove, via via, si sono intanati migliaia di tunisini, magari in dimore pericolanti, sei o sette a mucchio nella stessa stanza, pagando ottanta o centomila lire a testa. Ecco come, per imprevedibili e sordide vie, il benessere di una città può vivere anche sulla infelicità umana.

La crisi si chiedevano i mazaresi ricchi. E cos’è la crisi? E invece di mandare i loro figli per il mare sognavano di farli dottori, maestri e geometri. C’era il ragazzo Mohamed che andava per il mare e aveva la madre, il padre, cinque sorelle e quattro fratelli che egli forse non avrebbe rivisto mai più e che però egli faceva sopravvivere in qualche tugurio lontanissimo dell’Africa. Vive nel terrore che, un giorno, due carabinieri gli sbarrino la scaletta d’accesso al peschereccio e, prendendolo garbatamente sottobraccio, gli dicano: «Vedi Mohamed, ora tu devi tornare al tuo paese, non puoi più stare qui, perché non sei italiano, non hai il libretto di navigazione»

I sorrisi di Mohamed sono tutti impauriti. Parla un siciliano cantilenante, il suo momento più felice è quando il battello si stacca dal molo e parte per il mare aperto, dieci, venti giorni, un mese, due mesi: «Cosa può dare più felicità del mare, la libertà, la tempesta, il vento, la nave che insegue il pesce. Qualche volta i pesci sono tanti che si ha appena il tempo di tirare le reti, e bisogna gettarle daccapo e tirarle di nuovo, gettarle nuovamente in mare. Anche due giorni, tre giorni così, senza dormire mai. Anche questa per me è felicità!»

Ogni marinaio partecipa infatti al guadagno della pesca. Si detraggono tutte le spese, il carburante, l’olio, i viveri e, sul netto, l’armatore del battello ha il 49 per cento. Il 51 va all’equipaggio formato da dieci, dodici marinai. Il capitano guadagna però tre volte più di qualsiasi altro uomo. In queste piccole navi il capitano è dio in terra, nessuno può opporre obiezioni al suo ordine, è lui che conosce i banchi più ricchi, che stabilisce gli orari di lavoro, le rotte, i pericoli, che decide il rischio delle cannonate. Quando il capitano ha talento egli torna sempre con la nave gonfia di pesce. «Io riesco a guadagnare anche quindici o ventimila lire al giorno.»

Mohamed ride felice, ma anche nel riso la paura gli passa continuamente negli occhi come un’ombra. Se si ammala resta a terra come uno straccio, se si spezza una gamba nessun ospedale lo cura, se è disoccupato nessuno gli dà un sussidio per sopravvivere. Non sono iscritti ad alcun Istituto di previdenza o assistenza. Se scompaiono in mare nessuno cercherà i loro miserabili parenti per assegnare loro una pensione. Sono nessuno. «Anche oggi la polizia mi ha cercato. Per fortuna fra due ore salpiamo con la nave. Che Allah mi aiuti!»

Mohamed fece un inchino esitante, saltò dalla murata sul molo e si confuse in mezzo a centinaia di altri marinai. In mezzo passeggiavano due con il fez rosso, l’impermeabile bianco e le gambe nude. Erano vecchi. Chissà da quale Africa venivano a cercare una speranza, per l’ultima parte della vita. E in mezzo a quella folla per un attimo rivedemmo il ragazzo Mohamed che ci fece un sorriso febbrile: «Aiutatemi a diventare davvero siciliano!»

Detto in una terra dalla quale centinaia di esseri umani emigrano per la disperazione di essere siciliani, sembra una pazzia. Era forse l’alba quando ripassammo per Corleone. Il paese era deserto ma, in una stradina del centro, c’era una piccola folla immobile, i fari di alcune auto puntati contro la facciata di una casa, e in piena luce un corpo umano con tre fori nella testa. Era ben vestito, le mani curate, la cravatta, una borsa di pelle accanto. Ci dissero che era un avvocato. Sembrava la scena di un film. Fra noi e quella gente immobile ci fu questo strano dialogo: «Chi è?»

«Un avvocato!»

«E che gli è successo?»

«È morto!»

«Perché?»

«Gli hanno sparato!»

«E chi?»

«Qualcuno!»

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