«Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia», dichiarava Matteo Messina Denaro in un interrogatorio. Una frase che si è rilevata profetica, lo stragista è morto dopo 30 anni di latitanza e otto mesi divisi tra il carcere duro e il ricovero in attesa della morte certa
Sono passati otto mesi dal 16 gennaio 2023 quando i carabinieri dei Ros hanno arrestato Matteo Messina Denaro, il boss morto in queste ore per un tumore al colon. I numeri e la cronaca riscrivono la narrazione sulla sua cattura. L’ultimo stragista dei corleonesi ha trascorso trent’anni da uomo libero, in grado di pianificare stragi e ammazzamenti, di diventare padre, di fare la bella vita, di viaggiare, di «fottere e comandare». Trent’anni contro otto mesi divisi tra il carcere duro e il ricovero in attesa della morte certa, sottoposto a cure mediche, terapia del dolore e ogni genere di conforto per affrontare il fine vita. Giusto in tempo per mettere a verbale, una verità disarmante e amara: «Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia». Una frase che, senza nulla togliere all’impegno profuso dagli apparati investigativi, smontano il giubilo, mettono in dubbio il racconto solito sugli eserciti contrapposti e sulla sconfitta della mafia.
Il giubilo della politica
Il giorno del blitz i politici si erano scatenati in una pioggia di dichiarazioni, tutte dello stesso tenore: «Vittoria dello stato», «colpo durissimo a Cosa nostra», «il mondo è più sicuro». La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni aveva deciso di andare a Palermo per celebrare l’evento. «Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro degli uomini e delle donne che hanno portato avanti la guerra contro la mafia. Ed è una proposta che farò», dichiarava. A rovinare i festeggiamenti si era messa la cronaca di quelle ore con il ritrovamento di due cellulari nella disponibilità del latitante appena catturato, la notizia rendeva mendaci le prese di posizione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. «I boss non parlano al telefono», aveva detto qualche settimana prima l’inquilino di via Arenula. Proprio in quel periodo il ministro si intestava una guerra senza quartiere contro i pubblici ministeri antimafia e le intercettazioni: «Se siamo di fronte a una mafia che si è infiltrata dappertutto, allora la domanda è questa: dov’era l’Antimafia se siamo arrivati a questo risultato?... Non credo affatto che l’Antimafia abbia lavorato male, al contrario credo che Italia non sia così infiltrata da articolazioni mafiose che si sono insediate nei meandri più intimi della nostra vita individuale», diceva in aula. Frasi che hanno preceduto la presa di posizione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa definito «fumoso», opinione condivisa anche dallo stesso Messina Denaro che, negli interrogatori rilasciati, aveva trovato il tempo di definirlo un reato «farlocco».
Strali, quelli del ministro, che hanno avuto l’unico effetto di rovinare la luna di miele tra governo e magistratura, ma Meloni e Fdi hanno continuato a intestarsi quell’arresto, a celebrarlo come una vittoria per rinnovare l’immagine dell’esecutivo. «Il governo ha garantito la permanenza di istituti essenziali per la lotta alla criminalità organizzata: grazie anche alle forze dell’ordine e alla magistratura sono stati arrestati negli ultimi mesi più di mille mafiosi, tra cui il boss Matteo Messina Denaro», si legge sulla brochure propagandistica diffusa per celebrare il primo anno di governo Meloni. Non solo le divisioni nel governo, ma anche nella magistratura. Due i partiti contrapposti, chi ha rivendicato il risultato e chi ha messo in guardia dal facile giubilo, visto che senza le rivelazioni sulle stragi e i mandanti esterni, quella di Messina Denaro è stata una cattura trasformatasi in un fine vita nelle mani dello stato.
La composta e comprensibile soddisfazione della procura di Palermo, il cui capo, Maurizio De Lucia, ha da poco vergato un libro sulla cattura, si contrappone alle dichiarazioni di diversi pubblici ministeri che avevano, fin dal primo momento, chiarito che senza un contributo sui misteri irrisolti l’arresto di Messina Denaro sarebbe stata una vittoria di Pirro. Tirando le somme, il boss stragista non solo non si è pentito, ma ha goduto, ed è la differenza tra democrazia e barbarie, delle migliori cure sanitarie avendo la possibilità, impensabile da latitante, di riconciliarsi con la figlia che ha preso anche il suo cognome. Resta una domanda che lo stesso stragista ha messo nero su bianco in un interrogatorio: «Era giusto che io andassi in carcere, se mi prendevate. E ci siamo arrivati. Ma una domanda così, che lascia il tempo che trova: ma cosa è cambiato secondo lei?». Rispetto alla verità sulle stragi, niente.
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