Il presidente dei penalisti: «Il giudice deve essere e apparire terzo rispetto all’accusatore». Molto critico su nuovi reati e politiche carcerarie: «Così il governo viola la Costituzione»
La riforma costituzionale della separazione delle carriere sta proseguendo in parlamento ed è stata oggetto del congresso straordinario dell’Unione delle camere penali italiane, che della separazione ordinamentale tra giudice e pubblico ministero ha fatto solitaria battaglia per anni.
Presidente Francesco Petrelli, siete soddisfatti oggi che il governo si è intestato la riforma?
La nostra non è mai stata una battaglia di bandiera e men che meno un fine personale. Non vediamo la separazione delle carriere come un fine, ma esclusivamente come un mezzo per ottenere quella terzietà del giudice che sta scritta nell’articolo 111 della Costituzione. La nostra Carta infatti parla di giudice terzo ed imparziale e non si tratta di una semplice endiadi: per imparzialità si intende l’indifferenza del giudice rispetto all’oggetto della controversia, mentre la terzietà indica la mancanza di contiguità ordinamentale fra il giudice e le parti. Agli occhi dei cittadini, il giudice deve apparire, oltre che essere, terzo rispetto all’accusatore. Oggi l’unicità delle carriere lo impedisce.
Le toghe obiettano che, così, sia inevitabile che si arrivi alla sottoposizione del pm all’esecutivo.
Rispondo che l’indipendenza e autonomia dei pm sono certamente un bene prezioso per la democrazia. Proprio per evitare qualsiasi rischio di sottoposizione all’esecutivo, il nostro progetto di riforma depositato nel 2017 in parlamento aveva già previsto la creazione di un doppio Csm, uno per i giudici e uno per i pm. Questa, infatti, è la migliore tutela e la più efficace garanzia rispetto al rischio di un qualche controllo della magistratura requirente da parte della politica. Nella stessa direzione va anche la riforma presentata dal governo e ora in discussione in parlamento. Se invece che discutere delle norme si fanno delle congetture significa che non si hanno migliori argomenti da contrapporre a questa necessaria riforma.
Il governo Meloni, però, ha coniato anche lo slogan: “Garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione della pena”. La convince?
Quello che speravamo che fosse solo uno slogan elettorale si è invece trasformato in una vera e propria formula programmatica. Se da un lato è vero che il governo ha varato una serie di norme che hanno rafforzato le garanzie processuali, sul fronte delle norme sostanziali e delle politiche carcerarie ci si è mossi in una direzione opposta a quella che ci si sarebbe atteso. Il paradigma del diritto penale liberale prevede la proporzionalità della pena, il ricorso allo strumento penale come extrema ratio, l’attivazione dello strumento repressivo solo se assolutamente necessario. Invece, sin dall’inizio, già con le norme anti-rave e con il decreto Cutro, il governo ha promosso una incredibile moltiplicazione delle fattispecie di reato, anche le più fantasiose e le più distanti dalle reali necessità del Paese, ed inutili incrementi di pena. Per altro, in un memento in cui si va sempre più aggravando l’emergenza del sovraffollamento carcerario e l’esponenziale crescita del numero di suicidi, ormai a quota 75 da inizio anno. Ci si è messi contromano sull’autostrada del diritto penale liberale.
Il decreto Sicurezza va ascritto alla quota giustizialista dello slogan?
Il pacchetto sicurezza è un vero e proprio manifesto di questo atteggiamento irrazionale fondato esclusivamente su quello che viene definito il diritto penale simbolico. Un diritto fatto solo di segnali genericamente rassicuranti, ma del tutto inefficace sul piano della realtà. Si tratta inoltre di un insieme di norme che rientrano in una idea totalmente illiberale del diritto penale come abbiamo spiegato nella nostra audizione al Senato. Norme che violano tutti i principi costituzionali fondamentali in materia – proporzionalità, ragionevolezza, uguaglianza, offensività, tassatività e determinatezza. Ma c’è di più: si tratta di norme irrazionali, che non solo se entreranno in vigore incontreranno un evidente difficoltà di interpretazione e di applicazione da parte dai giudici, ma che risulteranno ovviamente del tutto inefficaci rispetto al dichiarato intento di aumentare la sicurezza dei cittadini.
Mi faccia un esempio di norma inapplicabile.
Prenda il reato di rivolta carceraria: si ritiene che possa essere integrata non solo da atti di minaccia e violenza, ma anche da condotte di resistenza passiva che sono per antonomasia condotte non offensive e non punibili. Punire condotte così antitetiche allo stesso modo significa non solo esporsi ad evidenti ingiustizie ma potrebbe anche sortire l’effetto opposto a quello desiderato.
Un esempio di norma irrazionale?
L’aggravante di aver commesso un reato negli spazi delle stazioni ferroviarie. Non si capisce in base a quale criterio criminologico qualsiasi reato, prenda ad esempio una corruzione o una circonvenzione di incapace, debba essere aggravato solo perché commesso sotto la pensilina di una stazione. Eppure, lo stesso ministro Nordio al momento dell’insediamento aveva riconosciuto che l’aumento delle pene e la moltiplicazione dei reati non aiutasse affatto ad aumentare la sicurezza dei cittadini.
Lei usa toni critici, ma c’è chi considera l’avvocatura ormai arruolata a favore del governo.
Quanto in realtà l’avvocatura penale sia poco alleata di questa maggioranza e poco allineata alle sue politiche lo dimostrano le ultime decisioni prese. L’Unione non è un partito politico e non cerca né consenso né alleanze. L’ultimo esempio è proprio la proclamazione di una astensione e una manifestazione nazionale come tentativo di contrastare alle scelte della maggioranza in materia di diritto penale e di politiche carcerarie. Se questa maggioranza ha due anime diverse, con tutto il rispetto, si tratta di un problema del governo. Noi di anima ne abbiamo una sola.
Non avete mai sostenuto alcuna maggioranza, quindi?
Noi siamo laici e trasversali e la nostra bussola sono la Costituzione e i diritti dei cittadini. Non abbiamo bisogno del consenso per fare le nostre battaglie e sappiamo dire sì al governo quando le sue politiche vanno nella direzione del giusto processo ma anche manifestare la nostra più netta avversione, come sul pacchetto Sicurezza.
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