Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Nella nostra prima immagine insieme, mio padre mi tiene in braccio.

Sorridiamo, siamo entrambi contenti. Sono felice di osservare la realtà stretto a lui e mio padre è felice di mostrarmi la realtà.

In genere, non si conservano ricordi nitidi dei primissimi anni di vita.

Le esperienze, le emozioni, le cose che ci accadono in quel periodo diventano, in maniera naturale, fisiologica, parti di noi, vengono assimilate e modellano il nostro carattere, definiscono le basi della personalità. Se hai paura di qualcosa a quell’età, è probabile che ne avrai per tutta l’esistenza, senza un lavoro specifico di rielaborazione della paura stessa e delle sue cause.

Quell’immagine di mio padre che mi tiene in braccio è racchiusa in una foto in bianco e nero, scattata all’inaugurazione di una sezione del PCI di Palermo alla fine degli anni Cinquanta.

Avrò avuto, più o meno, due anni e quella foto fa riemergere, dalle pieghe dei ricordi, altre immagini, non saprei dire quanto veritiere, di me che giro tra le gambe degli adulti, in un clima festoso, in un ambiente che avverto familiare, proprio perché è mio padre a farmelo sentire tale portandomi con sé, tra le sue braccia, nel suo mondo, tra la sua gente.

Tegher, vieni che ti racconto una storia!

Così mio padre, seduto su una sedia nella cucina della nostra casa di Palermo, mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe. Poteva accadere al suo ritorno da Roma, dove era stato per impegni sindacali, prima, o di partito, dopo.

Rispondevo felice al suo invito e saltavo sulle sue ginocchia. Lui simulava i movimenti del cavallo e ne imitava i nitriti, e iniziavano così lunghe galoppate, il cui rumore riproduceva, efficacemente, battendo la lingua sulle labbra, attraverso storie avventurose, ambientate in contrade a me sconosciute, note come Tiburtine o Laurentine e popolate da eroi.

Tiburzio, Tiburtino IV, Tegherzio, da cui il diminutivo Tegher, che avevo guadagnato, insieme ad altri di cui non serbo più traccia negli archivi della memoria, erano i protagonisti dei suoi racconti, ambientati nell’antica Roma, ispirati ai nomi delle strade consolari romane.

Qualche anno dopo, mio padre mi disse che le aveva concepite durante il periodo di studio alle Frattocchie e che le aggiornava successivamente, quando era a Roma per le riunioni di lavoro. Storie che non mi stancavo mai di ascoltare. Narravano imprese di personaggi coraggiosi, quasi eroi che si muovevano tra il mito e l’epica.

Di solito, uno di loro che aveva subito una prevaricazione, o era stato vittima di un’ingiustizia, trovava conforto e solidarietà negli amici, che lo aiutavano a sconfiggere l’arroganza del più forte e a ottenere il giusto risarcimento. In sostanza, rifacendosi alla tecnica dei cantastorie siciliani, che lo avevano appassionato in gioventù, mio padre mi raccontava di battaglie e scontri tra buoni e cattivi, dove nessuno moriva e i buoni vincevano e Tegherzio/Tegher, che ve lo dico a fare, era tra questi ultimi.

Mio padre si appassionava, e sempre aveva storie nuove. E c’era una particolarità: il racconto era condiviso.

I protagonisti li sceglievamo, di volta in volta, insieme. Il mio preferito era Tegher e lui approvava, ovviamente, anche se non sempre gli affidava il ruolo principale. Aveva un suo modo speciale di stimolare la mia fantasia: ogni tanto interrompeva il racconto per domandarmi come pensassi potesse evolvere la situazione, e se la mia risposta gli sembrava “congrua”, la adottava nel prosieguo della narrazione.

Tra un’inaugurazione di sezione di partito e una storia, mio padre proseguiva la sua battaglia.

Così gli piaceva definire il suo lavoro, o meglio, il suo impegno contro quel grumo di interessi politici, economici e criminali che stava pervadendo il tessuto sociale della Sicilia.

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