- Costruito quattro anni fa con la promessa di dare «dignità» e «solidarietà» ai lavoratori, è un agglomerato di 70 container esposti al sole a quasi un’ora di cammino dalla città più vicina.
- Fuori dalle sue recinzioni, tra le 20 e le 30 persone dormono all’aperto, tra immondizia e cartoni perché il campo è al completo.
- Attivisti e sindacalisti sostengono che non è una soluzione dignitosa, né una risposta allo sfruttamento, ma tra comune, regione, prefettura e croce rossa, non è chiaro a chi spetti il compito di intervenire.
Avrebbe dovuto essere un “campo modello” per dare finalmente un alloggio dignitoso ai braccianti agricoli stranieri che lavorano a Nardò, il comune in provincia di Lecce dove si è celebrato il più importante processo contro il caporalato agricolo.
Ma oggi, a un mese dall’inizio della stagione della raccolta, decine di persone dormono ancora all’aperto, in mezzo ai rifiuti e senza possibilità di lavarsi. La situazione tra gli operatori del campo e i braccianti che vivono al suo esterno è tesa, ma nessuna delle autorità competenti sembra volersi prendere la responsabilità della situazione.
Il villaggio
Formato da 73 container con bagni e docce comuni, il villaggio Boncuri, come si chiama ufficialmente, ospita circa 200 braccianti, tutti stranieri e con regolare contratto di lavoro. Una vicina mensa della Caritas offre loro i pasti.
Un comunicato dello scorso 23 giugno indicava il campo come «un modello delle politiche di solidarietà e dignità sociale» in un’area dove da decenni lo sfruttamento dei lavoratori agricoli è particolarmente grave. La Croce Rossa, che gestisce il campo da due anni, non consente l'entrata a visitatori e giornalisti.
Fuori dalla recinzione, all’ombra di una fila di alberi, vivono circa trenta persone, costrette ad accamparsi in condizioni inumane, anche se provviste di documenti e regolari contratti di lavoro.
«Ognuno dei 73 container ha quattro posti letto, ma l’Asl ha deciso che, a causa del Covid-19, solo tre possono essere occupati», spiegano gli attivisti di Diritti a Sud, un’associazione che da oltre dieci anni si occupa di aiutare i braccianti.
Questa decisione ha contribuito a tenere fuori un numero di lavoratori che varia tra i 20 e i 30. Altri non possono accedere perché l’ingresso è consentito soltanto a chi ha un regolare contratto.
Così, dopo ore di lavoro estenuante nei campi a raccogliere pomodori o angurie, decine di persone sono costretti a riposare su materassi abbandonati o semplici pezzi di cartone presi dalla strada. Anche all’ombra dei pochi alberi il caldo è insopportabile, il terreno intorno al bivacco è disseminato di immondizia e gli unici servizi disponibili sono tre bagni chimici esposti al sole di luglio.
«Sono qui da oltre una settimana e non ce la faccio più», racconta Mohamed, originario del Marocco, che vive in Italia da dieci anni ed è arrivato a Nardò da Foggia per lavorare nei campi, attirato anche dalla nascita del nuovo campo. «Non possiamo continuare a vivere così», dice un suo compagno di lavoro che racconta di avere richiesto l’accesso alla struttura da oltre due settimane.
La situazione al villaggio è tesa. Fare riprese e fotografie non è semplice. Le persone accampate fuori temono che le loro famiglie vengano a sapere della loro condizione e si tengono lontane dalle telecamere.
Ogni giorno gli esclusi provano a entrare, ma il personale della Croce rossa che gestisce il campo non può acconsentire. A decidere dell’organizzazione del campo e di eventuali interventi per aumentarne la capacità è un tavolo composto da tutte le istituzioni chiamate in causa tra cui prefettura, regione e comune. Ma è difficile capire chi ha la responsabilità di intervenire.
La Croce Rossa sostiene che sta già facendo tutto il possibile e sottolinea il miglioramento rispetto alla situazione degli anni precedenti. Il comune di Nardò ha fatto sapere a Domani che è responsabile soltanto del montaggio e lo smontaggio del campo all’inizio e alla fine della stagione della raccolta. La prefettura di Lecce e la regione Puglia, contattate da Domani, non hanno ancora fornito una risposta.
Nel frattempo, al villaggio Boncuri, la situazione rimane esplosiva e gli unici a metterci la faccia sono i volontari della Croce rossa costretti ogni giorno a respingere i lavoratori stremati. Il caldo e le zanzare non aiutano e ci sono momenti di tensione anche fra gli stessi braccianti quando un lavoratore pesta per sbaglio il cartone-letto di un altro. Piccole scaramucce che dicono tanto del clima pesante che si respira qui ogni giorno.
I numeri
Si calcola che siano circa 30mila i braccianti stranieri impegnati nell’agricoltura pugliese, la seconda regione dopo la Sicilia per numero di aziende agricole. Il loro lavoro è fondamentale nel corso dell’estate, durante la stagione della raccolta dei pomodori.
Chi ha un contatto regolare lavora in genere 4-5 ore al giorno per sette euro lordi l’ora. Ma i braccianti sono costretti a pagare ai caporali i costi del trasporto fino dal villaggio al campo, che può arrivare anche a dieci euro. I caporali spesso li obbligano ad acquistare da loro il cibo e l’acqua da bere. Alla fine, tolte le spese, per una giornata di lavoro il guadagno può scendere fino a 20-25 euro.
Nel 2011, prima della costruzione del campo, la protesta dei braccianti di Nardò contro i loro sfruttatori aveva portato alla più importante azione giudiziaria intrapresa contro il caporalato in Italia. Durante il cosiddetto processo Sabr sono state rinviate a giudizio 16 persone tra caporali e proprietari di aziende agricole locali, accusati di avere ridotto in schiavitù i loro lavoratori.
La sentenza in primo grado aveva fatto la storia riconoscendo per la prima volta il reato di “riduzione in schiavitù” in un contesto collegato al mondo del lavoro. Ma nel 2019 la corte d’appello ha ribaltato tutto: i fatti sono avvenuti tra il 2009 e il 2011, periodo in cui i reati contestati ancora non esistevano. Il processo ora si trova in Cassazione.
Marcello Risi, sindaco di Nardò all’epoca dei fatti, fu aspramente criticato anche dai membri della sua coalizione di centrosinistra per non avere permesso al comune di costituirsi parte civile nel processo.
Per un intervento più massiccio sulla questione, Nardò ha dovuto paradossalmente attendere l’avvento di un sindaco di destra: Giuseppe “Pippi” Mellone, vicino a Casa Pound, ma allo stesso tempo fedele alleato del presidente della regione Michele Emiliano, di centrosinistra.
Mellone ha collaborato alla nascita del villaggio Boncuri avvenuta nel 2017 ed è stato il primo sindaco pugliese a introdurre l’ordinanza che vieta il lavoro nei campi tra le 12 e le 16, un intervento arrivato dopo la morte nel 2015 di un bracciante sudanese, ucciso dal caldo mentre lavorava in un campo poco fuori città.
Quest'anno, l’ordinanza di Nardò è stata estesa a tutta la regione in seguito a un altro decesso, quello di Camara Fantamadi, bracciante maliano di 27 anni, morto di fatica dopo avere zappato per quattro ore per una paga di sei euro l’ora.
Soluzioni tampone
Tra ordinanze e la costruzione di campi come il villaggio Boncuri, la situazione è migliorata, ma a Nardò, come in molte altre zone della regione, rimangono situazioni di sfruttamento e incuria che riguardano migliaia di braccianti.
«Se consideriamo da dove siamo partiti situazione migliorata, ma non è ideale», dice Antonio Gagliardi, segretario della Flai Cgil che da anni segue la vicenda di Nardò. Il campo, spiega, è esposto al sole ed è un vero e proprio ghetto, senza mezzi pubblici che lo collegano al centro abitato, quasi un’ora di distanza a piedi. «Alla fine non è che la condizione dei braccianti sia cambiata più di tanto», dice.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato del lavoro, il 60 per cento delle aziende agricole pugliesi ispezionate nel 2020 non era in regola, in crescita rispetto all’anno precedente. La Flai Cgil denuncia inoltre che il numero di controlli è in calo, mentre sono pochissime le aziende agricole di partecipare al progetto Rete del lavoro agricolo di qualità, per contrastare lo sfruttamento lavorativo e il caporalato. Lecce è la provincia con la più bassa adesione: solo cinque aziende in tutta la provincia si sono iscritte.
In questa situazione, progetti come il villaggio Boncuri rischiano di essere soltanto una foglia di fico che nasconde una situazione di sfruttamento, sostengono alcuni. «Noi dentro il villaggio Boncuri non entriamo perché non crediamo che rappresenti una reale soluzione per il tema dei braccianti», dice Angelo Cleopazzo, membro dell'associazione Diritti a Sud che dal 2015 produce la salsa Sfruttazero, per dimostrare l’esistenza di modelli economici alternativi al caporalato.
Secondo Cleopazzo, il campo è un luogo di «segregazione» in cui i lavoratori vengono recintati e separati dalla comunità del paese, come fossero corpi estranei. «Un’idea diametralmente opposta a quello che noi chiamiamo “inclusione”». Il problema del villaggio è anche la deresponsabilizzazione delle aziende agricole.
Non solo è una situazione comoda per i datori di lavoro che possono raccogliere i braccianti in unico punto facendo pagare loro il trasporto, ma soprattutto il villaggio fa ricadere i costi del vitto e dell’alloggio dei braccianti sulla comunità e non sulle aziende, che possono continuare a non pagare in maniera dignitosa i lavoratori. Un circolo vizioso che, secondo l’associazione, non darà mai una vera dignità alle condizioni dei braccianti.
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