- La fabbrica di Mirafiori è un gigante grande una volta e mezzo la città di Torino, in buona parte abbandonato e dal futuro incerto.
- L’impianto avrebbe dovuto ospitare la “gigafactory” di batterie di Stellantis, la società nata dalla fusione di Fca e Peugeot, ma il profetto è finito a Termoli e ora di Mirafiori nessuno sa più cosa fare.
- Nemmeno i candidati sindaco, che sul progetto fanno dichiarazioni vage. Gli operai, intanto, si sentono abbandonati da tutti.
Fili d'erba che crescono nelle fessure del cemento intriso di olio e vecchi calendari ingialliti, la fu fabbrica Fiat Mirafiori è anche questo: uno spettro che aleggia nella campagna elettorale per le amministrative del prossimo autunno, vagamente ignorato sebbene la sua colossale incidenza sulle sorti di questa città abbia scandito la forma del territorio e la forma del pensiero di chi qui vive.
Nella vecchia fabbrica torinese sarebbe dovuta arrivare la “gigafactory”, la più importante fabbrica di batterie per automobili in Europa. La produzione invece è andata a Termoli, per scelta politica e sociale presa in accordo tra la proprietà franco-italo-americana di Stellantis, la società sorta della fusione di FCA e Peugeot, e il governo, lasciando Torino di fronte a vuoto di senso che ha generato sconcerto e rabbia.
Oggi, la fabbrica delle fabbriche giace nel quadrante sud della città, in attesa che il mondo le dica cosa deve essere, se la sua vita esisterà ancora, se il suo sangue, il lavoro, continuerà a circolare oppure se arriverà alla sua conclusione l'emorragia iniziata dell’auto in città, iniziata oramai quasi 30 anni fa.
Volantini a Porta 2
Divisa in due grandi complessi, la fabbrica ha un perimetro di dodici chilometri e ci vogliono tre ore di cammino a piedi per circumnavigarla. La sua superficie è pari a una volta e mezzo quella del centro città. I dipendenti sono 16mila, con un'età media di 54 anni. Da 14 anni sono in cassa integrazione a turno. Il cuore pulsante di quel che resta di questo enorme impianto è la Porta 2, che ancora oggi vive al ritmo degli ingressi e delle uscite delle sue migliaia di lavoratori.
Un tempo non remoto qui c’era battaglia tra i candidati sindaco per intercettare il voto operaio. Oggi, per attivisti e militanti il volantinaggio è un patimento da cui prima o poi si deve passare.
«Lasciamo perdere», «non voto più», «mi aspettano», «no grazie», «ancora qua venite voi?». tra i lavoratori che escono dal settore “Carrozzerie”, poco dopo le due di pomeriggio di una giornata di luglio, il rifiuto di commentare le prossime elezioni amministrative è un torrente di dinieghi.
La differenza tra i tempi in cui qui veniva l’allora sindaco di Torino Sergio Chiamparino è abissale: allora si formavano capannelli di folla curiosa, entusiasta, contestatrice. Idem per il leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, passato dall'assalto delle maestranze festose ai fischi, ma mai ignorato. Se oggi si presentasse il segretario del Pd al massimo sarebbe circondato dai giornalisti e qualche curioso, ma vale per tutti i leader politici.
«Cosa devono venire a dire qua i candidati sindaci o politici?», domanda Francesco P. impiegato, quaranta anni circa di cui almeno un terzo passati in Fiat. «Non possono fare nulla, nemmeno Agnelli o Draghi possono fare qualcosa, siamo ormai tutti troppo piccoli, compresi quelli che crediamo possano contare qualcosa. Io spero di salvarmi con una pensione anticipata».
Michela Sanfilippo, operaia delle carrozzerie in Fiat dal 2013 dopo un lungo passato in Bertone, è una delle pochissime che ha voglia di raccontare con nome e cognome. «Io sento la totale assenza della politica negli ultimi anni – dice – Si allarga una sensazione di abbandono e solitudine in una azienda sempre più forte dove noi operai siamo sempre più deboli».
La vecchia politica è sparita, dice Sanfilippo, e un’alternativa non si vede ancora: «L'assenza di un partito di sinistra schierato con chi lavora ha aperto le porte al voto di destra in fabbrica, anche nella classe operaia».
«Ma a voi pare normale che in questo stabilimento ci sia cassa integrazione da quattordici anni?», dice Giorgio Airaudo a proposito del disinteresse degli operai nei confronti della politica. Sindacalista Fiom e già parlamentare dal 2013 al 2018 per Sel, Airaudo nel 2011 condusse la battaglia sul referendum dell’allora amministratore delegato Sergio Marchionne che spaccò a metà la fabbrica, Torino e l'Italia.
Storia di famiglie e riqualificazioni
Per Airaudo, la storia della fabbrica a Torino degli ultimi anni è quella di una serie di promesse tradite. Stellantis ha recentemente messo in vendita gli uffici del Lingotto dove hanno lavorato gli Agnelli, Marchionne e gli Elkann, in via Nizza 250, il che fa pensare che la promessa che la «testa del nuovo gruppo» gruppo rimanga a Torino sia solo una promessa, appunto.
Le difficoltà di Maserati e del polo del lusso di Grugliaco, fuori Torino, potrebbero portare a uno spostamento di attività a Mirafiori. Il significato simbolico di questa chiusura, però, sarebbe ambiguo. La fabbrica di Grugliaco si chiama “Avv. Giovanni Agnelli Plant” e chiuderla sarebbe l’ennesimo segnale dell’abbandono della città da parte degli Agnelli-Elkann.
«Oggi Mirafiori è un macigno di cui nessuno si occupa – continua Airaudo – Non esiste un ragionamento all'altezza di cosa ci aspetta, della normativa Ue che di fatto metterà fuori gioco tutta la componentistica meccanica, si pensi al cambio e alla trasmissione che spariranno. Il prossimo sindaco dovrà affrontare una sfida ben più ardua di quello che si fece nel 2006».
Il 2006 di cui parla Airaudo è l’anno peggiore nella storia recente della Fiat e quello che segna anche uno degli ultimi tentativi della politica di intervenire sulla vicenda industriale della città. Quell’anno, la Fiat stava per fallire e gli enti locali decisero di comprare un pezzo di Mirafiori. In cambio, gli Agnelli promisero di tenere per un anno la produzione della Punto in città, seguita da quella della Mito. L’operazione ebbe successo sul piano industriale e occupazionale, ma non su quello della riqualificazione del sito. Nella parte acquistata dovevano giungere produttori di componentistica ma alla fine si è insediato solo un pregevole distaccamento del Politecnico di Torino.
Riqualificare, cioè trasformare spazi abbandonati in nuove aree in grado di produrre reddito, è la parola chiave negli anni del declino post industriale della città. Secondo una ricerca di Nexto, un centro studi che si occupa di riqualificazioni urbane e non solo, a Torino il luoghi “abbandonati” che potrebbero essere oggetto di una rigenerazione grazie ai fondi del Pnrr, coprono un milione di metri quadri. Solo Mirafiori nel copre altri tre.
I candidati
I candidati sindaci che dovranno governare questa trasformazione ciclopica e non indolore, si arrangiano come possono. Per Stefano Lo Russo, candidato del Partito Democratico e del centrosinistra appartiene alla prima categoria, il futuro della città è nell’automobile ibrida.
«La mancata assegnazione della gigafactory a Torino è un grave danno per la città», dice. Ora però bisogna «guardare avanti». Lo stabilimento di Mirafiori è «fondamentale» per Torino. «Si parli dell'ibrido che è quello che vende di più. A Torino abbiamo la multinazionale belga Punch, uno dei più grossi fornitori automotive che studia l’elettrico ibrido e Cnh che con l'accordo con Nikola elabora nuovi modelli, elettrico e idrogeno sui veicoli industriali: questi sono gli argomenti sul futuro dell’automotive a Torino».
Per l’imprenditore Paolo Damilano, candidato sindaco della lista civica Torino Belissima e sostenuto dal centrodestra, il futuro di Torino dev’essere nell’innovazione, ma anche nella tradizione. «Torino e Mirafiori non possono perdere tempo o sprecare questi anni del rinnovamento economico, ambientale e tecnologico», dice. Damilano parte dalla storia di Torino per concludere che non può essere cancellata.
La candidata del M5s a sindaca di Torino, Valentina Sganga, è quella meno propensa alla resistenza a oltranza dell'auto a Torino, anche perché l'amministrazione uscente di Chiara Appendino non si è risparmiata nella guerra al trasporto privato su auto in città. «Io credo che si debba iniziare a ragionare su un processo post industriale per quanto riguarda Mirafiori», dice e si spinge a ipotizzare riqualificazioni urbane di massa grazie ai fondi del Pnrr, in linea con le trasformazioni urbane anticicliche degli anni novanta e duemila: giganteschi interventi infrastrutturali e grandi eventi, che hanno tamponato il dissanguamento occupazionale, ma che hanno creato un mondo del lavoro precario e istituzioni oberate di debiti, che per garantire i servizi non possono che contare sullo stato sociale delle fondazioni bancarie.
«Come accade da tempo la classe dirigente di Torino giunge in ritardo sui problemi e quando lo fa rimane imprigionata dentro tic che variano dalla frustrazione per una primazia decaduta e la negazione della realtà», dice Luca Davico è sociologo e ricercatore al dipartimento di Scienze, progetto e politiche del territorio del Politecnico e Università di Torino e dal 2000 cura il Rapporto Rota, analisi annuale della città sotto molteplici aspetti. «Mancano progettualità di rottura: il problema di Mirafiori e del suo futuro difficilmente troverà una soluzione se rimarrà una cerchia di potere ristretta».
È la stessa idea che esprimono i disillusi lavoratori di Mirafiori. «Servirebbe un salto culturale da parte della politica e in generale della classe dirigente: vengano davanti alla nostra Porta 2 a parlarci, a vedere, a capire», dice Michela Sanfilippo. Difficile che ricevano una buona accoglienza, però. La classe operaia da tempo è uscita dal paradiso.
© Riproduzione riservata