Un mandato d’arresto, un piano secessionista, l’invio dell’ex guardia del corpo del premier ungherese: gli ultimi sviluppi in Republika Srpska appaiono mirabolanti. Ma dietro c’è un tentativo prolungato di destabilizzazione
Chissà se Madeleine Albright si sta contorcendo nella tomba: era stata proprio lei, da segretaria di stato Usa, a definire Milorad Dodik «una boccata d’aria fresca», un leader capace di contrastare i rigurgiti nazionalisti di fine anni Novanta, in tempi non lontani dagli accordi di pace di Dayton che trent’anni fa avevano placato la guerra in Bosnia ed Erzegovina. Invece è proprio Dodik oggi a vestire i panni del separatista e a sabotare attivamente non soltanto gli accordi di Dayton, ma gli equilibri nella regione, con effetti potenzialmente esplosivi per la stabilità europea, in una fase in cui l’Ue ha già da agitarsi per le garanzie di sicurezza in Ucraina.
Trattasi del vecchio assioma del divide et impera, dove però a dividere la Bosnia ed Erzegovina è Dodik ma a imperare sono pure i suoi alleati, il più ingombrante dei quali è senz’altro Vladimir Putin. Ma il leader che ha un mandato di arresto pendente, che prova a sovvertire gli equilibri costituzionali e a farsi il suo – separato e separatista – esercito ha anche un aggancio dentro l’Unione europea, e chi poteva essere lo sfacciato in questione, se non Viktor Orbán?
Pure il premier ungherese vanta un passato da giovane e brillante leader con borsa a Oxford ed entrature nel mondo liberale, così come Dodik – che è stato premier e poi presidente della Republika Srpska a più riprese nell’arco di oltre vent’anni – può aver abbagliato gli Usa in passato. La realtà è che a muovere i due leader non è la coerenza ideologica, ma una corsa per il potere che sfrutta semmai l’ideologia per il proprio scopo.
L’agente provocatore
I prodromi delle tensioni in corso risalgono a ben prima della guerra in Ucraina. Nel 2010, quando il Consiglio per l’attuazione della pace chiedeva di non dimenticare il genocidio di Srebrenica, Dodik dava una delle sue tante esibizioni di negazionismo. Quanto alla spinta separatista, è memorabile il fatto che l’allora commissario Ue all’Allargamento (tuttora commissario ma con altra delega) Olivér Várhelyi, fedelissimo di Orbán, fosse già a conoscenza a novembre 2021 dei piani di Dodik per disgiungere fisco, forze armate e sfera giudiziaria della Republica Srpska dal resto della Bosnia.
Una volta avviata l’aggressione russa dell’Ucraina, non c’è stata alcuna interruzione degli incontri tra Dodik e Putin, anzi: le strette di mano concrete e politiche abbondano. La frequentazione con Orbán e il supporto dell’autocrate ungherese ai piani secessionisti sono altrettanto collaudati.
Le ultime puntate
All'incontro tra i due (e Vučić) a Budapest a metà febbraio ha fatto seguito un episodio clamoroso: Orbán ha spedito in Republika Srpska la sua ex guardia del corpo János Hajdú e la squadra speciale da lui diretta (Terrorelhárítási Központ, l’antiterrorismo). La versione ufficiale è che si sia trattato di una «esercitazione», volta anche ad addestrare la polizia locale, a ogni modo Dodik ha fatto filtrare la cosa a ridosso della condanna piombata su di lui dal tribunale bosniaco: un anno di carcere e l’interdizione per sei anni dalla carica di presidente; condanna di primo grado con possibilità di ricorso.
Dodik ha ripetutamente rifiutato di rispondere agli interrogatori e lavorato per disconoscere le autorità (anche giudiziarie) bosniache. Un mandato di arresto è arrivato dalla procura questo mercoledì, per «attentato all’ordine costituzionale», alla vigilia del voto del parlamentino della Republika Srpska sulla proposta di nuova costituzione autonoma, volta a cambiarne lo status politico e giuridico; una violazione dell’accordo di Dayton e, quel che più conta, della pace.
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