Quasi un anno di guerra, una escalation in corso, e l’Unione europea continua a urlare nel deserto. I leader europei stigmatizzano l’attacco iraniano, ma non riescono a frenare la violenza. Le divisioni interne tra governi non aiutano a essere incisivi
Quasi un anno di guerra, una escalation in corso, e l’Unione europea continua a urlare nel deserto.
Questo mercoledì a Berlino il cancelliere tedesco e il presidente francese – motore francotedesco in avaria – hanno «rinnovato l’appello per un cessate il fuoco».
Se si pensa che ci sono voluti mesi anche solo per poter scrivere quell’espressione, «cessate il fuoco», nei documenti finali dei governi europei – e settimane a cercare perifrasi come «pausa umanitaria» per girarci intorno – si capisce perché l’alto rappresentante Ue Josep Borrell pronunci in questi giorni frasi rassegnate e disperate. «Questa sarà una guerra lunga», ha detto. «E non possiamo limitarci a contare sugli Stati Uniti».
Appelli inascoltati
Se si ripercorre l’agenda di Borrell, che è diventata ormai un cahier de doléances, un quaderno di speranze frustrate, si vedrà che il 25 settembbre, a margine dell’assemblea Onu a New York, aveva preso sotto braccio il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi per invitare a «evitare un’ulteriore escalation».
Sforzi vani. Ritroviamo l’alto rappresentante Ue costretto dagli eventi a dichiarare a inizio settimana che «l’Ue condanna con la massima fermezza l'attacco dell'Iran contro Israele». La dichiarazione ribadisce pure «il nostro impegno per la sicurezza di Israele: questo ciclo di attacchi rischia di alimentare una escalation regionale incontrollabile».
Finora gli appelli dell’Ue alla «moderazione» sono caduti nel vuoto, eppure i leader – compresa la premier italiana – insistono che «una soluzione diplomatica risulta ancora possibile»: è questa la conclusione trasmessa questo mercoledì pomeriggio da palazzo Chigi, dopo che Giorgia Meloni ha convocato e presieduto d’urgenza una conferenza telefonica dei leader del G7.
Emmanuel Macron ha delegato il compito a Jean-Noël Barrot, il neo-ministro degli Esteri del governo Barnier, e non si è collegato: aveva un intervento da fare a Berlino. E sempre qui, il presidente francese e Olaf Scholz hanno a loro volta «discusso della situazione in Medio Oriente, condannando con forza gli attacchi missilisticiiraniani contro Israele. Riguardo al conflitto tra Israele e Hezbollah, hanno rinnovato l'appello per un cessate il fuoco immediato e l'attuazione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite».
Questa risoluzione risale al 2006 e tramite il potenziamento della missione Unifil (nata nel 1978 e alla quale l’Italia partecipa attivamente) ambiva a monitorare la cessazione delle ostilità. «I peacekeeper di Unifil restano in posizione e la bandiera Onu continua a sventolare, nonostante la richiesta di Israele di ricollocarli», ha detto questo mercoledì il segretario generale Onu António Guterres, che nello stesso giorno è stato dichiarato dal governo israeliano “persona non grata”.
Tra Usa e veti
«Netanyahu è inarrestabile, nessuno lo ferma, ci dirigiamo verso una guerra lunga e – a poche settimane dalle presidenziali – non possiamo limitarci semplicemente a contare sugli Stati Uniti: hanno tentato più volte ma non sono riusciti»: così Borrell ha parlato venerdì all’Onu. Ma se affidarsi agli Stati Uniti non basta, cosa fa l’Unione europea, a parte inviare aiuti umanitari ed esortare alla diplomazia? «Cosa possiamo fare di fronte a questa processione di morte?».
La richiesta di cessate il fuoco è stata di per sé una conquista, dall’autunno scorso, e persino lunedì, quando Borrell ha convocato in emergenza i ministri degli Esteri Ue, è stato messo il veto (di Praga, ma in sintonia con governi filo-Netanyahu come quello ungherese) a una dichiarazione unanime per chiederlo per il Libano. Così Borrell ha dovuto chiederlo a nome suo.
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