«Stiamo valutando l’ipotesi di offrire a tutti i migranti alla frontiera ungherese di trasportarli volontariamente e gratuitamente a Bruxelles». Un biglietto di sola andata: è l’ultima delle provocazioni del governo di Viktor Orbán, lanciata in pasto alla stampa questo giovedì dal ministro Gergely Gulyás e prontamente rilanciata dai propagandisti orbaniani, primo fra tutti Zoltán Kovács. Il megafono internazionale del premier ha sùbito tradotto: «If Brussels wants migrants, they will get them. Vogliono i migranti? Li avranno!».

La minaccia e la fiction

Negli ultimi tempi la galassia orbaniana ha davvero ammesso di aver supportato e fomentato azioni destabilizzanti contro il quartier generale Ue. «Abbiamo aiutato noi i gruppi di agricoltori dei vari paesi europei a fare rete tra loro per protestare», aveva dichiarato in un’intervista a Domani Frank Füredi, che dirige l’avamposto brussellese dell’istituto Mathias Corvinus Collegium (Mcc), una macchina di soft power orbaniana. Il fatto che quelle dimostrazioni avessero messo a ferro e fuoco Bruxelles «per me non è un problema», aveva detto pure.

Ma chiunque conosca le dinamiche politiche e retoriche di Viktor Orbán sa che le sue sparate hanno sempre un doppio livello di lettura: non conta tanto ciò che dice (o fa dire), ma perché. La minaccia in sé «non va sovrastimata» – come dice a Domani l’analista Daniel Hegedüs – perché «la retorica orbaniana sui migranti è sempre la stessa, dal 2015». Eppure ci sono almeno due ragioni per le quali la propaganda orbaniana suona particolarmente rumorosa.

La prima è che in questo frangente l’Ungheria detiene la presidenza del Consiglio dell’Unione europea: dopo le gite al Cremlino e le strette di mano cordiali del premier ungherese con Vladimir Putin, questa ennesima provocazione dimostra che la reazione dell’Ue è eccessivamente tiepida. Il despota si sente libero di strafare come al solito, radicalizzando lo scontro retorico.

La seconda ragione per cui la minaccia del «biglietto sola andata» suona paradossale è che proprio il governo Orbán sta concedendo lasciapassare a «potenziali spie russe»: altro che contenimento delle frontiere invocato da Gulyás; sulla faccenda dei visti è in corso uno scambio epistolare tra Bruxelles e Budapest.

L’autocrate ungherese ha ormai costruito il suo mondo finzionale, e a confrontarlo con la realtà ci si scontra con la contraddizione. Il vero tema è: qual è la ragione pragmatica che spinge Orbán a scatenare la macchina della propaganda? Le ultime controversie riguardano anzitutto i rapporti con la Russia.

Controversie in corso

A giugno la Corte di giustizia Ue ha ordinato all’Ungheria di pagare 200 milioni, più un milione al giorno finché non rispetterà una sentenza che già dal 2020 esige il rispetto delle norme europee sul diritto di asilo.

Ad agosto è partito un altro monito dalla commissaria Ue Ylva Johansson, che ha esibito preoccupazione per la scelta dell’Ungheria di alleggerire il regime dei visti (con la «carta nazionale») anche a favore della Russia (dando così «facile accesso a potenziali spie russe»). Il governo ungherese ha risposto l’altro ieri alla lettera, schivando le preoccupazioni; e sta cercando di schivare al meglio anche le sanzioni ucraine contro Lukoil, dato che Orbán è determinato a continuare a rifornirsi di petrolio russo.

Tutte queste controversie richiamano il primo grande scontro della presidenza di turno ungherese, cominciata con un viaggio al Cremlino. Ma «i governi europei non sono riusciti neppure a imporre sanzioni simboliche, figuriamoci sostanziali», constata Hegedüs. E più Orbán vede un’Ue remissiva, più strilla.

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