Nata in Finlandia e impiantata a New York come accademica della Columbia Law School, si può dire che Anu Bradford abbia creduto nell’Europa e nella sua influenza persino più dell’establishment brussellese stesso.

È stata proprio lei a fare scalpore sulla stampa internazionale qualche anno fa, con il suo The Brussels Effect: How the European Union Rules the World (poi arrivato in Italia come Effetto Bruxelles): in questo volume parlava dell’Ue come di una «potenza normativa», dato che – questa è la tesi di fondo della giurista – nessuno meglio degli europei è in grado non soltanto di garantire tutele, ma di far diventare le sue regole veri e propri standard globali. Questo regulatory power (la capacità di essere influenti con le regole) è particolarmente evidente nel settore tech, versante sul quale Bradford ha concentrato le sue ricerche, che si trovano in un successivo libro: Digital Empires: The Global Battle to Regulate Technology.

Ma questa incrollabile fiducia nell’Ue va aggiornata alla luce degli ultimi sviluppi: l’effetto Trump, non soltanto l’effetto Bruxelles. In realtà già nel 2021, in una prima intervista per Domani, Bradford aveva denunciato «la pressione crescente che proviene dagli Usa e dai colossi tech» per sgretolare le regole. Poi quell’attacco è diventato sempre più sfacciato: lo si è visto con le uscite dei vari Musk, Zuckerberg, Vance contro le norme europee.

Siamo e possiamo ancora essere una potenza normativa, ora che gli Stati Uniti conducono un attacco frontale non soltanto contro le nostre regole, ma più in generale contro il rules-based order, l’ordine internazionale?

La cosa che più mi preoccupa è che l’Ue è a un passo dal perdere la sua baldanza in fatto di regole e valori. Capisco che gli europei siano preoccupati sui versanti nei quali si è più deboli – per esempio essere stati dipendenti dagli Usa e la problematicità di trovarsi da soli nel difendere Kiev – ma ci sono campi sui quali l’Ue è stata forte e può continuare a esserlo. Se invece retrocede sul proprio potere regolatorio, se lo svende, l’eventualità che l’influenza dell’Ue sia compromessa c’è. Ma è una precisa scelta dell’Ue, non un obbligo, per quanto le pressioni statunitensi siano innegabili.

In queste settimane la Commissione von der Leyen erode le regole Ue attraverso una serie di pacchetti «di semplificazione» che comportano di fatto una deregolamentazione sociale e ambientale. Macron l’ha accolta con giubilo, sostenendo che «ci liberiamo dei dazi che ci imponevamo da soli»: le regole come tassa o fardello. Un passo falso?

Ho molte riserve su un’agenda di deregolamentazione, per quanto in generale possa essere corretto rivedere le regole qualora non funzionino. Sul versante tech – quello che conosco più in dettaglio – l’Ue è sottoposta a pressioni sia esterne che interne volte a smantellarne le regole. Quelle esterne arrivano anzitutto dall’amministrazione Usa e dai colossi; quelle interne hanno avuto un’accelerazione con il rapporto Draghi. Ho sempre detto che l’Ue ha un problema di competitività, ma pensare che sia la deregolamentazione a renderci competitivi è un passo falso. Ciò su cui l’Ue è carente è non aver creato le basi per un efficace ecosistema digitale: non ci sono un’unione del mercato dei capitali e un mercato digitale integrato, non è stata rivista la legislazione sulla bancarotta per favorire le innovazioni e non ci sono politiche forti per attrarre talenti.

Dopo l’insediamento di Trump, sono emersi timori che, invece di far valere le regole Ue (come Dsa e Dma) contro le ingerenze di Musk, la Commissione stesse temporeggiando nell’applicarle. Eppure economisti come Gabriel Zucman sostengono che l’Ue dovrebbe fare semmai il contrario: rispondere alla guerra dei dazi di Trump colpendo in modo mirato l’oligarchia tech. Che ne pensa?

Per le aziende tech Usa l’accesso al mercato europeo è una necessità, e l’Ue deve essere assertiva. Non significa utilizzare il diritto come arma negoziale – le regole non possono essere oggetto di compravendita né politicizzate – ma neppure fare una ritirata. Sarei delusa e preoccupata se davvero l’Ue capitolasse sulle regole digitali e più in generale sullo stato di diritto: basterebbe cedere a un solo ricatto di Washington per innescare una deriva senza fine; fatta una concessione e retromarcia, Trump potrebbe minacciare dazi per ottenerne un’altra, e così via. Le regole europee – e quindi l’Ue stessa – hanno avuto una tale influenza globale che se gli europei stessi tornassero indietro ci sarebbe il rischio che i giapponesi e chiunque altro nel mondo facessero altrettanto. È più importante che mai che gli europei restino impegnati per i propri valori. Se gli Usa fanno passi indietro, l’Ue ne faccia in avanti: assuma la leadership, cooperi con gli altri paesi “bullizzati” da Trump.

Ma lei vede questa volontà politica dalle parti di Bruxelles?

Ho visto maggioranze per i diritti in Europarlamento e penso ci sia sostegno dei cittadini: per quale società lottare se non per questa?

In Italia fa discutere la manifestazione pro Ue di oggi. Cosa significa per lei, anche dal punto di vista personale, essere «europeista»?

Vedo gli Usa avviarsi verso una “società della crudeltà” e spero che gli europei restino focalizzati su una “società dell’umanità”, dove ci si prende cura, ci si rispetta e si prendono sul serio quei valori che hanno reso l’Europa sicura e prospera. Oggi più che mai mi sento legata alle mie radici europee e spero che gli europei assumano un ruolo di guida sulla rule of law, sui diritti fondamentali, su libertà e democrazia. Qui inizio a sentirmi straniera. Non mollate.

© Riproduzione riservata