«Se la penso da solo in un modo, e gli altri 26 stati membri la vedono diversamente, questo non è isolamento. È un dibattito». Forse Giorgia Meloni può prendere in prestito questa peripezia dialettica, nella quale si è avventurato questo venerdì Viktor Orbán, per camuffare il fatto che l’Italia vede allontanarsi sempre più la prospettiva di nuovo debito comune europeo.

Alla Puskás Aréna, lo stadio di calcio di Budapest dove questo venerdì i leader europei – con Mario Draghi e Christine Lagarde – hanno discusso di competitività sotto l’ombrello della presidenza di turno ungherese, i giocatori in campo si sono mossi con uno strano senso della partita: tutti a riconoscere che la vittoria di Trump deve riorientare in fretta l’Ue, il senso dell’urgenza; ma se possibile ancor meno condizioni politiche di prima, quando si tratta di pensare ai «nuovi strumenti», vagheggiati con vaghezza nella vaga dichiarazione finale di Budapest.

Il debito comune si allontana sempre più come orizzonte: persino Draghi è costretto a prendere le misure con gli equilibri in corso, e parla infatti da politico più che da ex banchiere centrale quando dice – come ha fatto questo venerdì al summit europeo sulla competitività – che «il finanziamento pubblico comune è indispensabile ma non è la prima cosa».

Sui fondi comuni – come ha detto Charles Michel, al suo ultimo Consiglio da lui presieduto – «oggi non c’è consenso, ma sono fiducioso che nei mesi a venire ci sarà dibattito». Dibattito o, altrimenti detta, posizioni solitarie mentre la politica europea gira al contrario rispetto a quella globale: «L’Europa ha già i soldi», ha detto da Budapest un sempre più traballante Olaf Scholz, con la locomotiva tedesca politicamente in panne.

Se lo scenario a Berlino porterà in futuro l’etichetta della Cdu, con Friedrich Merz avversario dichiarato del debito comune, il contesto non potrà che peggiorare. Ma Meloni parla di revisioni del Patto di stabilità.

Meloni e Draghi disallineati

«Il dibattito sulla competitività – ha detto la premier arrivando al vertice – è iniziato già mesi fa, impennandosi dopo l’Inflation Reduction Act di Biden. Il tema non è cosa gli Usa possano fare per noi, ma cosa l’Europa possa fare per sé stessa: deve prendere misura di sé».

Arrivati al momento di «prendere le misure» però, sembrano sempre più stretti i margini di manovra della premier: come lei stessa ha detto già in mattinata, «gli investimenti necessari sono molti ma il vero dibattito è sulle risorse e non so se oggi si arriverà a soluzioni concrete». Come a presagire che non sarebbero arrivate: infatti nella dichiarazione finale, che pure fa riferimento a investimenti sia privati che pubblici, si fa solo un laconico riferimento a «esplorare tutti gli strumenti» e a «esplorare lo sviluppo di nuovi strumenti».

Il debito comune «non è la prima cosa», per dirla con Draghi, che si è scontrato in prima persona con un contesto ostile già al vertice informale di Versailles, quando era premier, e che ha «preso le misure», per dirla con Meloni. Quando ancora Emmanuel Macron era in forze e Scholz meno instabile, invece di fare asse con la Francia – come aveva fatto Draghi a Versailles – la premier italiana è rimasta di fatto estromessa dai negoziati sulla riforma del Patto di stabilità, che resta rigorista anche se in un modo diverso dall’originale.

Ora da Budapest Meloni va dicendo che il dibattito sul patto «va riaperto», che in quello «nuovo ci sono aperture ma va fatto molto di più». Chiama in causa i vincoli del patto per divincolarsi in fatto di spese: «Certo, per garantire maggiore indipendenza bisogna investire di più in difesa, ma non sono disposta a prendermela coi lavoratori»; a detta di Meloni è il Patto di stabilità a fare da stop.

Peccato che Draghi, in parallelo, nella stessa mattina, smentisca di fatto questa lettura: «È possibile spendere per la difesa il due per cento del Pil rispettando il Patto di stabilità», stronca. «Ma certo, bisognerà prendere una serie di decisioni, poi viene l’aspetto dei soldi».

Cosa resta di Budapest

«Si sa poco di quel che succederà esattamente – ha detto sempre Draghi a Budapest – ma una cosa appare più sicura delle altre: Trump darà impulso ai settori innovativi e proteggerà le industrie tradizionali, che sono proprio quelle dove noi esportiamo di più verso gli Usa. Quindi con l’alleato dovremo negoziare, con spirito unitario così da proteggere i produttori europei». Un «senso di urgenza» per l'Ue: è quel che l’autore del rapporto sulla competitività ha voluto trasmettere. E a parole a Budapest si è parlato di soli sei mesi per un piano.

Ma quanto ambizioso, e quanto realistico? I cronisti ancora ricordano gli annunci irrealizzati di Lisbona, mentre von der Leyen già da tempo fa capire che il debito comune è un miraggio; per lei bisogna puntare anzitutto sulle cosiddette «risorse proprie». Mentre un baldanzoso Orbán già pregusta un ruolo di mediatore – «sta a noi negoziare per fare anche l’Europa great again» – intanto la presidente della Commissione Ue, interrogata sugli effetti pratici, risponde che per tener buono l’alleato si può «comprare dagli Usa più gas naturale liquefatto». Pure in metafora: in confronto alla gravità e all’urgenza del contesto internazionale, la volontà e capacità politica dei leader europei è ancora allo stato gassoso.

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