Era il 20 giugno quando Le Monde ha reso noto che una donna era stata drogata dal marito e violentata da decine di uomini per quasi dieci anni. La donna in questione era sotto pseudonimo per proteggere la sua identità: Françoise P. Qualche mese dopo, si sarebbe saputo il suo vero nome e tutto il mondo avrebbe avuto la possibilità di conoscere la sua sfera più intima. Oggi il suo nome e il suo volto sono noti a chiunque e in tutta la Francia, sabato 19 ottobre, ci sono state manifestazioni in suo supporto organizzate da gruppi femministi. 

Lei è Gisèle Pelicot, settantunenne in pensione che viveva con il marito (oggi ex marito) Dominique a Mazan, un piccolo comune della Provenza. Dominique la drogava somministrandole farmaci e sonniferi nel cibo o nelle bevande, reclutava uomini su una chat francese, Coco, oggi chiusa e poi filmava lo stupro.

Gisèle Pelicot è venuta a conoscenza delle violenze quasi per caso, dopo che l’allora marito era stato arrestato per aver cercato di filmare sotto la gonna di alcune donne in un negozio. In quell’occasione la polizia gli aveva sequestrato cellulare e computer, trovando migliaia di video e fotografie delle violenze sessuali nei confronti della moglie.

Pelicot ha deciso che la sua storia avrebbe dovuto raggiungere più persone possibili, per questo ha chiesto che il processo fosse pubblico, anche se la legge francese le avrebbe garantito la possibilità di avere un processo a porte chiuse per tutelarla.

L’ha fatto con la speranza che la sua storia potesse aiutare altre donne: «Forse una mattina una donna che si sveglia senza memoria penserà alla mia testimonianza». Fin dalle fasi iniziali del processo – avviato il 2 settembre al tribunale di Avignone – Pelicot ha cercato di invertire la narrazione, dicendo che «la vergogna deve cambiare campo». Parole che anche sabato sono diventate lo slogan delle manifestanti. 

Vergogna e potere

«Lo stupro è una forma di potere ed è anche una forma di umiliazione nei confronti della vittima, questo ce lo dice il fatto che per moltissimi anni sono state le vittime a vergognarsi. Gisèle Pelicot cerca di ribaltare quello schema con le sue azioni e con le sue parole», dice Consuelo Corradi, professoressa di Sociologia generale all’università Lumsa di Roma.

Decidendo di esporsi è diventata un’icona. Il New York Times le ha assegnato il ruolo di «feminist hero», raccontando che «molte vittime sentono che lei parla a loro», che gruppi di donne si radunano davanti al tribunale di Avignone per starle vicino e che in tutta la Francia da settimane si organizzano manifestazioni di sostegno. «Il suo gesto ha aiutato tutte», continua Corradi. «È il gesto di una donna che va incontro alla verità, che è consapevole della sua totale innocenza. Penso che la sua decisione possa aiutare davvero le donne ad acquisire coraggio e a non essere più legate a quella sensazione di vergogna».

La situazione di Pelicot ha contorni molto definiti. Le fotografie e i video la ritraggono inerme mentre decine di uomini la stuprano. Le prove a carico dell’ex marito e degli altri uomini sono così nette e difficilmente contestabili che «Gisèle Pelicot, decidendo di esporsi, corre un rischio molto limitato».

Ma, secondo la professoressa Corradi, «non tutte le situazioni sono come la sua. Ci sono casi in cui le prove sono lontane nel tempo o non sono così chiare e farsi avanti per la vittima può essere molto più rischioso» perché può essere ignorata, non creduta, derisa o, nei casi peggiori, può mettere a rischio la sua incolumità. Ed è così che Pelicot, permettendo a chiunque di conoscere la sua vicenda e di vedere quei video intimi, ha dato voce alle donne che non possono o non vogliono farlo, assumendo quasi un ruolo sociale collettivo.

Vittime colpevoli

Nonostante la vittima abbia numerose prove a suo favore, questo non le ha risparmiato insinuazioni e giudizi da parte degli avvocati e della stampa. Alcuni legali della difesa hanno sollevato dubbi sulla sua credibilità, sulle abitudini sessuali, mostrando anche alcune foto intime di Pelicot. «Con queste foto si cerca di intrappolarmi, si vuole mostrare che ho attirato questi individui a casa mia e che ero consenziente», ha detto la vittima durante il processo. Dopo aver visto quelle foto e subito le insinuazioni della difesa ha aggiunto: «Capisco perché le vittime di stupro non denunciano».

La scelta non scontata «di fare un processo pubblico disturba terribilmente gli imputati», ha scritto il giornalista di Le Monde Henri Seckel. «L’ostilità nei suoi confronti (di Pelicot, ndr) da parte di alcuni avvocati della difesa, nonostante la presenza dei giornalisti, dà un’idea del massacro che sarebbe stato questo processo se si fosse tenuto a porte chiuse».

La decisione di Gisèle Pelicot non è rilevante solo perché, accettando di diventare di dominio pubblico, ha assunto su di sé una responsabilità collettiva, ma anche perché ha reso note le caratteristiche degli uomini accusati: padri, fratelli, fidanzati, mariti, compagni, persone normali con lavori normali, quelli di cui nessuno – e soprattutto nessuna – sospetterebbe.

Nei casi di stupro spesso anche la stampa non si esime da commenti e insinuazioni. Il Telegraph, ad esempio, ha pubblicato un titolo, poi modificato, che descriveva l’atteggiamento di Pelicot non come quello di una persona che vuole giustizia, ma come quello di una donna che chiede vendetta: «La moglie pretende vendetta pubblica sugli uomini che la violentarono ogni notte dietro ordine del marito».

Come scrive The Femcast, un sito che tratta di emancipazione delle donne e parità di genere, il titolo «non solo banalizza la sofferenza, ma perpetua anche stereotipi dannosi sulle donne e sulle loro risposte al trauma (…) Allo stesso modo implica che gli uomini coinvolti stavano semplicemente seguendo “ordini”, come se fossero partecipanti passivi a questi stupri». Una narrazione – sia quella di alcuni avvocati che quella del titolo del giornale – che minimizza le responsabilità degli uomini e fa leva sulle (inesistenti) responsabilità della vittima.

Secondo la professoressa Corradi però qualcosa nel modo di raccontare gli stupri e le violenze negli anni sta cambiando a favore delle vittime. «Ricordo che quando in Italia presentammo uno dei primi report sui femminicidi alla stampa all’inizio degli anni Duemila era difficile per i giornalisti andare oltre al tema del delitto di passione. I femminicidi erano visti solo come delitti passionali e stavano a pagina 28 di 30 nei giornali. Oggi fortunatamente qualcosa sta cambiando: le violenze e gli stupri sono raccontati con maggiore completezza».

La voce degli uomini

«Invitiamo gli uomini a sollevarsi con noi, a non rimanere più nel migliore dei casi passivi, nel peggiore complici», ha scritto un collettivo di femministe su Libération, invitando gli uomini a scendere in piazza al loro fianco. E la richiesta non è caduta nel vuoto.

Secondo il giornalista televisivo Karim Rissouli, conduttore del programma C ce soir, il caso degli stupri di Mazan stimola una necessaria riflessione «sul nostro modo di essere uomini» e rappresenta «forse il primo grande processo della mascolinità».

Rissouli non è stato il solo a porsi delle domande. Meno di un mese fa sempre su Libération è stata pubblicata una lettera in cui oltre duecento uomini si sono fatti portavoce di una presa di consapevolezza: «Sette anni dopo l’inizio di #MeToo, a che punto siamo? Cosa abbiamo imparato? Come ci siamo posizionati? Dove siamo quando i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli hanno comportamenti o commenti sessisti? Dove siamo quando le donne vengono aggredite?»

Anche se «è un po’ tardi», scrivono, «c’è ancora tempo» per far diventare «l’affaire des viols de Mazan» un punto di svolta. In quel caso Gisèle Pelicot sarà davvero riuscita a far «cambiare campo» alla vergogna e il suo coraggio ricorderà a tutte le vittime che non sono sole, che non è colpa loro.

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