Il centrodestra tedesco non può permettersi alleanze a destra, per non legittimare Afd. Le destre europee non hanno un programma, sono divise e non sono in accordo su molti temi. L’euroscetticismo è sterile perché toccare i trattati – in un senso o nell’altro – rimane un tabù assoluto
Si poteva ottenere di più in Europa? Probabilmente no, viste le condizioni di partenza. Casomai, è provato una volta di più che “battere i pugni sul tavolo”, come sempre si dice, serve a poco perché l’Unione europea è una questione di alleanze e di coalizioni, in cui nessuno può fare da solo (salvo la Germania…). Scandalizzarsi perché la maggioranza si è spartita i top jobs anche se indebolita (l’arrocco dei perdenti, come scrive Federico Fubini) è ingenuo: chiunque avrebbe fatto lo stesso.
Tuttavia, da qui a dire che la medesima maggioranza ha fatto bene a non tener conto delle posizioni italiane ce ne passa. Il discorso sembra riguardare la relazione tra destre e sinistre europee, ma si tratta di un abbaglio: in realtà tutto gira attorno al Ppe, ai popolari europei.
Certamente sotto la guida tedesca della Cdu e di Ursula von der Leyen si tratta di un gruppo che si è spostato progressivamente a destra: non siamo più all’epoca di Angela Merkel, e la sua ex ministra della Difesa ha dimostrato di guardare a destra. Ma proprio per questo i popolari non desiderano allearsi con i conservatori del gruppo Ecr presieduto da Giorgia Meloni: vogliono al contrario rappresentare essi stessi tutto lo spazio che dal centro va verso destra.
Si tratta di un problema essenzialmente tedesco, cioè della Cdu-Csu: allearsi in Europa con un gruppo più a destra sarebbe dare un pretesto all’AfD estremista di legittimarsi e – a termine – di pretendere di entrare in maggioranza. In pratica i popolari tedeschi non vogliono alleati a destra nel timore di perdere voti e ruolo in casa propria.
L’asse a destra
Antonio Tajani ha provato a far capire ai suoi colleghi della Cdu che la maggioranza è troppo corta per reggere i franchi tiratori (che sempre ci sono) ma soprattutto che l’asse europeo si è spostato a destra. Ma è precisamente questo che mette in ansia i democristiani tedeschi: l’alleanza con i liberali in decadenza e con i S&D in stallo non costa loro tanto quanto un’eventuale coalizione con Ecr che richiederebbe di cedere molto di più.
Giustamente Massimo Cacciari si domanda perché la sinistra europea non alzi la voce per domandare dove sia finita l’Europa solidale e unitiva di ieri, quella che cercò addirittura di scrivere una costituzione. La risposta è presto detta: incalzare troppo il Ppe alzerebbe il prezzo e lo spingerebbe verso destra: questo è il timore generale.
La sinistra non vuole correre il rischio di un duello contro i conservatori con il vento in poppa intenti a sedurre il Ppe. Per cui meglio tacere e lasciare andare le cose come sono sempre andate in questi anni, anche se ciò favorisce smaccatamente il Ppe. Tanto ci sono già i liberali a fare da fronte del no ideologico alle destre, perché si tratta di un gruppo ormai sull’orlo del tracollo (guardare non solo ai risultati italiani e francesi, ma anche belgi e così via). Così Meloni e Schlein si sfidano da lontano ben sapendo che non è ancora giunto il loro turno ma è comunque questo il momento di mettere in campo la propria influenza sotterranea.
Solo che Schlein ha più tempo, mentre la premier deve dimostrare presto di essere in grado di ottenere qualcosa. Anche lei ha nemici in casa: i polacchi del PiS che hanno minacciato sulle prime di andarsene dal gruppo e gli spagnoli di Vox che hanno fatto lo strappo. Il guaio di Fratelli d’Italia in Europa è che i partiti like-minded, come si dice, cioè quelli politicamente simili, stanno quasi tutti nel Ppe. Anche lo stesso Orbán – ora fuoriuscito – viene da lì. Ecr può anche decidere di attendere il suo momento più in là: non c’è solo il voto sulla Commissione, ma quelli su tanti altri provvedimenti dove è facile che la maggioranza si sfarini.
Se il Ppe e soprattutto von der Leyen considerassero che senza i voti di Ecr non si riesce a far passare nessun provvedimento, sarà difficile evitare una qualche forma di alleanza. È probabile che von der Leyen e Meloni si siano accordate confidenzialmente su questo, anche perché la presidente è abituata a una gestione del potere molto accentrata e non collegiale, saltando spesso i commissari competenti e decidendo da sola.
Se il primo dei problemi sta dunque dentro il Ppe e segnatamente tra i popolari tedeschi, il secondo è tutto interno alle destre. Intanto sono due, Ecr e i Patrioti, successori di Identità e democrazia (Id), e questo complica il quadro. Quando Meloni ha cercato di creare un supergruppo è stata stoppata: le destre sono divise su tante cose, dalla guerra in Ucraina, alla relazione con gli Stati Uniti, al modello economico, ai diritti ecc.
Non tutti condividono il minimo comun denominatore posto dalla von der Leyen: pro Europa (che oggi significa ben poco); pro Ucraina e pro stato di diritto (è ciò che ha fatto bandire Orbán). Se l’asse europeo si è spostato a destra, tuttavia ancora non esiste un programma europeo delle destre, a parte una generica contrarietà per i poteri della Commissione e per l’euroburocrazia. Troppo poco per un’alleanza, fosse anche di convenienza, con il Ppe.
Essere scettici non basta
Il percorso svolto da Fratelli d’Italia non è ancora stato fatto né da Le Pen né tantomeno dagli altri partiti di destra.
Se le sinistre non si chiedono cosa ne è stato dell’Europa di ieri, le destre non possono limitarsi a un euroscetticismo generico anche se gridato. L’idea dell’Europa delle nazioni o dell’Europa confederale non ha una base giuridica: occorrerebbe emendare i trattati, cioè limare i poteri della Commissione ecc. Ma a Bruxelles cambiare i trattati è un tabù assoluto: ci sarebbe una levata di scudi generale.
Nessuno vuole davvero toccarli, perché tutti sanno che sarebbe come aprire il vaso di pandora con effetti imprevedibili, magari opposti a ciò che si va ricercando. La frammentazione e la fragilità dei partiti europei – salvo il Ppe almeno per ora – consigliano di lasciar perdere. Anche le destre hanno ormai appreso che una conferenza intergovernativa che provi a cambiare i trattati si sa dove inizia ma non si sa mai dove finisce. Il suo impatto è imprevedibile come insegna la storia dell’integrazione europea. Quindi tutto resta uguale a prima e la retorica anti Bruxelles è solo retorica.
Nemmeno un politico rotto a tutte le sfide come l’olandese Mark Rutte riuscì a imporre condizionamenti all’Italia sul Pnrr: a Giuseppe Conte bastò chiedere cosa dicevano i trattati in proposito e la questione svanì nel nulla. Il reiterato nazionalismo delle destre Ecr e dei Patrioti sbatte continuamente contro l’architettura politico-giuridica che discende dai trattati: non basta odiare la euro-tecnostruttura per superarla.
La verità è che il trattato in vigore è un libro alto più di un metro, frutto di immensi sforzi e infiniti compromessi, scritto in linguaggio giuridico-politico che in pochissimi conoscono e sanno manipolare. Ecco perché spesso «si fa come si è sempre fatto» come dicono i funzionari della Commissione, gli unici veri esperti.
La “bolla di Bruxelles” ha questo vantaggio anche sul più scatenato o carismatico dei politici di qualunque colore: è grande come 27 paesi (quindi non è provinciale), è molto articolata, e chi non la conosce e/o non la studia ci si perde facilmente. La descrive bene Paolo Valentino nel suo Nelle vene di Bruxelles, lettura necessaria (e divertente) a chi si cimenta con Bruxelles. Restano ai governi dunque solo gli strumenti della politica: frenare su ciò che non piace, rallentare i processi, rimandare… Un po’ poco per diventare un programma. Una Marine Le Pen indebolita dal risultato delle legislative francesi ha un effetto positivo per Giorgia Meloni, mentre accordarsi con Macron sarebbe più vantaggioso, anche se per lei fastidioso.
La domanda che tutti i partiti europei dovrebbero porsi è invece: qual è oggi l’interesse comune dell’Europa? Anche formulato non in contrasto con gli interessi nazionali, è questo il quesito vitale per tutti: tirar fuori alcuni principi di interesse collettivo sulla base dei quali declinare programmi e proposte secondo le rispettive visioni. È finito il tempo “Europa-sì vs Europa-no”, come dimostra Meloni. Ci possono certamente essere dei contrasti, ma un minimo comun denominatore servirebbe a dare all’Europa una direzione che oggi non ha. Fare del “surplace”, in attesa di decidere chi ci sta e chi no, non serve a molto in un contesto internazionale in continua ebollizione.
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