Al summit dei leader il dibattito è sull’opportunità di usare debito comune per le spese militari. Intanto la premier placa gli animi sul rischio escalation. Sintonia inedita su Gaza, dopo la mossa degli Usa
Non ci sono soltanto le conclusioni del Consiglio europeo, e cioè la sintesi delle volontà politiche dei leader; sintesi che dovrebbe orientare l’azione dell’Unione europea, stavolta in particolare su difesa, guerre in Ucraina e Medio Oriente, allargamento. Nessuno meglio dei capi di stato e di governo sa che i summit europei, come quello di questo giovedì e venerdì, sono anzitutto un’occasione per parlarsi a quattr’occhi, e per sondare il terreno.
A volte sono gli incontri a margine, e le battute strappate dai cronisti in corridoio, a fare la differenza molto più delle conclusioni ufficiali. Va inteso così, per esempio, il bilaterale tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron, nel quale sappiamo per certo che si sia discusso di indebitamento comune per l’industria militare, ma si intuisce che il vero nodo fosse un altro: lo scenario post europee.
Vento d’estate
Quando i cronisti chiedono alla premier italiana se Ursula von der Leyen sia ancora una carta forte – «una buona candidata» – per la guida della Commissione Ue dopo le elezioni europee di giugno, Giorgia Meloni si esercita nell’arte dell’equilibrismo, rispondendo in sostanza che lei è in attesa. «Aspetto di vedere come votano gli italiani: ci sono dei candidati», dice Meloni riferendosi al fatto che von der Leyen è candidata alla presidenza (“spitzenkandidat”) dei Popolari. «Dopo il voto si vedranno i pesi e cosa si può fare». La traduzione è: la premier sa bene che per la futura presidenza serve una combinazione di sostegni tra forze politiche e tra capi di governo. «Il punto non è chi, ma per fare cosa? L’Europa dev’essere molto diversa da quella di oggi – dice sempre la premier – e deve avere capacità di incidere sulla competitività, con un approccio meno ideologico».
A proposito di competitività c’è un italiano ben noto in Europa che ha ricevuto a settembre proprio da von der Leyen l’incarico di stilare un report ad hoc. Si tratta di Mario Draghi, che ci sta lavorando da tempo – intende ad esempio promuovere finanziamenti pubblici a livello europeo per le imprese e l’idea di un indebitamento comune collima bene coi piani dell’Eliseo – e che in questo momento è quindi Mister Competitività. Casomai il riferimento di Meloni potesse essere casuale, va detto che i riferimenti si affollano: «La presidenza della Commissione non dev’essere iperpoliticizzata», ha detto questo venerdì Emmanuel Macron, interrogato a sua volta su von der Leyen. «Il presidente deve elevarsi al di sopra dei partiti».
Sembra di sentire i discorsi che circolavano in Italia quando i partiti si rimisero appunto all’ex banchiere centrale. Di sicuro i macroniani a Draghi pensano, ed è plausibile che pensino a lui per il Consiglio europeo se von der Leyen non si brucia per la Commissione; certo è che non possono bruciare pubblicamente Draghi.
Difesa e debito
Premier italiana e presidente francese si sono appunto incontrati a vertice finito. Come conferma il versante governativo nostrano, i due hanno «avviato una riflessione sul nodo essenziale delle risorse».
In realtà Macron questa riflessione l’ha già avviata da tempo. Il presidente francese spinge per l’indebitamento comune, e mira a convincere i più restii che gli eurobond per la difesa sono cosa buona, al punto che «li ha proposti un paese considerato frugale». Peccato che neppure il viaggio del presidente francese a Berlino la scorsa settimana abbia smosso del tutto il cancelliere riluttante: questo venerdì Olaf Scholz ha ribadito di non essere convinto su questo punto. Ecco allora l’utilità di una sponda italiana, anche perché Meloni è sulla stessa lunghezza d’onda.
Quando si tratta della spinta a investire più fondi pubblici europei per l’industria militare – come la Commissione europea ha previsto di fare a inizio marzo e come questo summit ha pure ribadito – «io sono molto d’accordo, sull’idea di rafforzare l’industria della difesa», sostiene la premier. «Ma bisogna fare i conti con le risorse. La proposta di modificare il mandato della Banca europea degli investimenti – dice riferendosi al fatto che al momento la Bei non può investire in armi – trova molto consenso, ma secondo me si può fare qualche passo ulteriore». Il dibattito «è in divenire». Come a dire: chissà che anche Scholz non si schiodi.
Nell’attesa di una svolta su questo, i leader confermano anche per iscritto, nelle conclusioni, quel che era chiaro dalla trasversalità di volontà politiche: «Serviranno sforzi ulteriori per aumentare in modo sostanziale la spesa nella difesa»; bisogna «esplorare tutte le opzioni per mobilitare finanziamenti e di questo si riferirà a giugno».
Ucraina e Gaza
Nel frattempo l’opinione pubblica è sempre più confusa. Da una parte l’impeto retorico per spingere fondi all’industria militare fa gonfiare il tema della guerra: di «economia di guerra» parlano leader come Macron, e del resto lo stesso presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha esordito in conferenza stampa con un «buongiorno, oggi il portavoce del Cremlino ha dichiarato lo stato di guerra» (si riferiva all’Ucraina e al fatto che ormai è palese che «non è un’operazione speciale ma un’invasione»). Al contempo, c’è chi, come l’alto rappresentante Ue Josep Borrell, si rende conto che si rischia di alimentare l’ansia collettiva e precisa che «la guerra non è imminente, non bisogna terrorizzare la gente».
A margine del Consiglio, Meloni ha detto la sua su questo punto: «C’è stata confusione perché nelle bozze un certo paragrafo era finito nel capitolo sulla difesa, poi lo abbiamo estrapolato, perché in realtà il riferimento era alle crisi in generale e alla protezione civile». Alla fine è diventato il penultimo passaggio delle conclusioni, infilato tra agricoltura e semestre europeo; si intitola «risposta alla crisi» e parla in effetti della «necessità imperativa di migliorare e coordinare la preparazione civile e militare, e la gestione delle crisi, in un contesto di minacce in evoluzione». Stando alla premier italiana, l’espressione «militare» è dovuta al fatto che così in alcuni paesi è inquadrata la protezione civile, e per il resto il clima al summit era il solito.
Se c’è un dossier sul quale però il clima era un po’ diverso dal solito, si tratta di Gaza. Questo venerdì la parola «cessate il fuoco» è entrata nelle conclusioni del vertice, mentre le volte precedenti era persino capitato che le divisioni interne sul tema inducessero i leader a espungere il tema dalla loro dichiarazione finale. Ora si legge che «il Consiglio europeo invoca una immediata pausa umanitaria che porti a un cessate il fuoco sostenibile». Il fatto che gli Usa, inclini al veto sul tema del cessate il fuoco, si siano resi protagonisti di una risoluzione Onu che lo contemplava - ma bocciata questo venerdì da Russia e Cina – senz’altro ha condizionato questa inclinazione collettiva. Macron ha pure detto che la Francia proporrà una risoluzione a sua volta.
C’è poi sintonia tra leader anche nel «sollecitare il governo israeliano a non intraprendere un’operazione di terra a Rafah».
Bosnia, Pac e clima
Quest’ultimo punto era stato spinto anche da Meloni, che può festeggiare pure sul via libera del Consiglio europeo ai negoziati per l’adesione della Bosnia Erzegovina. Chigi era tra i governi che spingevano in questa direzione. Il quadro è meno roseo di come lo descrive Bruxelles, vista la complessità di un paese che ha tra i leader figure come il separatista Milorad Dodik, amico del premier ungherese e ancor più di Putin.
Vittoria di Pirro anche quella vantata da Meloni sull’agricoltura: oltre alle «semplificazioni amministrative» invocate dai leader, c’è la commissione von der Leyen già impegnata a smantellare la sua stessa Politica agricola comune. E come se non bastasse, questo venerdì i governi europei hanno impantanato la legge sul ripristino della natura, che era stata il test del Ppe per aggregare le destre contro il Green Deal. Matteo Salvini dichiara festa. Ma non il clima.
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