Il leader che doveva guidare il post Merkel ha un partito ai minimi e una coalizione impopolare. Non è solo questione di qualità personali, ma del ruolo della Germania come motore europeo
Qualcuno ancora ricorda Olaf Scholz giocare a “fare la Merkel”, ossia a posare in una elegante foto in bianco e nero con le mani giunte in una delle pose più iconiche della storia tedesca degli ultimi decenni: il triangolo rovesciato, segno distintivo della donna che per sedici anni era stata cancelliera, un marchio di tale forza che alle elezioni federali del sideralmente lontano 2013 era diventato un gigantesco manifesto-mosaico formato da migliaia di foto di elettori di Frau Angela, accompagnato da una semplice frase: «La Germania è in buone mani».
Sono passati solo tre anni dalla foto di Scholz in posa merkeliana, ma sembra un secolo. In quel momento, dopo un periodo di oscillazioni da ottovolante nei favori degli elettori tedeschi, il buon Olaf e i suoi socialdemocratici conobbero un insperato comeback e l’allore vicecancelliere aveva gioco facile nel mettersi in scena come vero traghettatore della stabilità merkeliana.
Il «sobrio, pragmatico e serio» Scholz, ex borgomastro di Amburgo e solido ministro delle Finanze, l’ex “Scholzomat” (così definito per la sua attitudine di rispondere in maniera un po’ robotica alle domande dei giornalisti), riuscì a convincere i tedeschi che era lui il vero erede di “Angie” e a conquistare la cancelleria, nonostante appartenesse al partito avversario, quello dei socialdemocratici.
Peccato che il tempo non si sia dimostrato galantuomo, e oggi il nome Scholz è sinonimo della più umiliante sconfitta nella storia centenaria del partito che fu di Brandt e di Schmidt: il voto europeo ci consegna una Spd scesa sotto il 14 per cento dei consensi e nel complesso i tre partiti della cosiddetta coalizione “semaforo” (socialdemocratici più verdi e liberali) sfiorano appena il 30 per cento, ossia la percentuale raggiunta dalla sola unione Cdu/Csu capeggiata da Friedrich Merz.
A detta degli analisti, un’infinità di fattori ha contribuito alla débâcle: le continue oscillazioni di Scholz sull’Ucraina, il fatto che proprio il conflitto abbia fatto precipitare la crisi climatica nella scala delle priorità dei tedeschi annichilendo le prospettive dei Verdi, la dichiarazione d’incostituzionalità delle modifiche di bilancio che ha “bruciato” decine di miliardi, le continue liti tra i partiti del semaforo, con i Verdi a spingere per un allentamento del cosiddetto “freno al debito” (iscritto finanche nella legge fondamentale), i liberali dell’Fdp a insistere sul rigore e l’Spd a balbettare in mezzo, il tutto aggravato dalla crisi dell’industria automobilistica (altro totem di stabilità per i tedeschi, praticamente la loro Fort Knox), dall’inflazione e dal timore onnipresente di un possibile crollo del proverbiale benessere tedesco.
A trarne vantaggio, l’ultradestra dell’AfD, che – nonostante gli scandali, nonostante l’isolamento internazionale, nonostante sia da tempo sotto osservazione dell’intelligence – è riuscita a scavalcare i socialdemocratici del cancelliere e posizionarsi come seconda forza politica della Germania. Anche lì: è da mesi che i sondaggi registrano “l’avanzata nera”, ma il governo a guida Scholz non è sembrato capace di contenerne l’arrembaggio, l’ha subìto balbettando, mentre solo le piazze strapiene in decine di città gridavano il loro stop ai “nuovi nazisti”. Il risultato: la coalizione semaforo è il governo più impopolare dal Dopoguerra a oggi.
«Uno zombie»
«Ci si chiede in che mondo viva Scholz», scrive sulfureo lo Spiegel, che mostra incredulità dinnanzi alle reazioni dei socialdemocratici al responso delle urne. «Noi ci prepariamo ad avere consensi sempre più grandi e la fiducia degli elettori», dichiarava il cancelliere al termine di un silenzio durato 48 ore. Lo Spiegel declassa questa reazione a una forma di “auto ipnosi”, mentre la Zeit arriva a proporre che Scholz «chieda un voto di fiducia sapendo di perderlo, in modo che il presidente possa sciogliere il parlamento: a quel punto si terrebbero le elezioni anticipate, idealmente il prima possibile».
A detta del giornale si tratta di uno scenario «urgente e necessario», dato che le elezioni europee sono state de facto – come in Francia – un voto di sfiducia nei confronti del governo. Il punto è che a settembre si va alle urne anche in Turingia, Sassonia e Brandeburgo, dove è facile predire un nuovo terremoto: l’AfD si profila come primo partito, sancendo un nuovo “muro” a dividere la Germania occidentale e l’ex Ddr. Conclude la Zeit: «Se va avanti il semaforo, avanzerebbe verso il voto federale del 2025 come uno zombie».
Non è una bella prospettiva, per un paese che ha fatto della stabilità uno dei fondamenti della sua esistenza (cosa comprensibile, quando nella tua storia ci sono gli squassamenti di Weimar con l’ascesa di Hitler come corollario).
Eccola, la convitata di pietra di tutta questa storia: Angela Merkel, appunto. Poco meno di tre anni fa la sua popolarità toccava livelli bulgari (del fattore K, da Kanzlerin, beneficiava anche la Cdu/Csu), lei aveva aperto il paese a oltre un milione di migranti riuscendo nondimeno a tenere insieme il paese, veniva applaudita come “ultima leader del mondo libero” grazie alla sua tenuta antitrumpiana, aveva guidato la Germania con mano sicura attraverso la pandemia, era sempre e comunque lei, l’icona di una Germania forse noiosa, ma affidabile e solida come dev’essere la locomotiva d’Europa.
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Gigante malato
Ma con i tank russi che invadevano l’Ucraina il castello di Merkelandia è sembrato precipitare in un vortice: la Germania intera ha messo sotto accusa non solo gli ultimi quindici anni di politica tedesca verso la Russia, ma addirittura le ultime cinque decadi e oltre, sin dalla Ostpolitik di Willy Brandt. Con tutte le crisi annesse: il corto circuito della vicenda North Stream 2, il gasdotto – “congelato” dopo la deflagrazione dell’Ucraina – che avrebbe reso la Germania dipendente al 90 per cento dal gas russo (dunque da Putin, il presidente con il quale Merkel parlava in un russo fluentissimo), la crisi dei rapporti con la Cina, ovviamente l’inflazione, la relazione complicata con gli Stati Uniti.
In sostanza: scivolando dal ruolo di “egemone riluttante” a essere di nuovo il gigante malato al centro dell’Europa, la Germania è tornata ad avere immensi dubbi sul proprio ruolo nel mondo, e il cancelliere non è stato in grado di offrire delle risposte convincenti.
Ebbene, non c’è triangolo rovesciato che tenga: gli odierni dolori di Scholz sono provocati anche dall’onda lunga della fine dell’impero merkeliano.
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