- Věra Jourová è vicepresidente della Commissione europea e ha le deleghe a Valori e Trasparenza. Di origine ceca, era a Bruxelles già con Juncker presidente: dal 2014 al 2019 si è occupata di Giustizia e Uguaglianza di genere.
- In questa intervista, che si è svolta in diretta durante il festival di Scenari a Pesaro, la commissaria anticipa i contenuti della proposta di un organo etico indipendente e spiega perché von der Leyen si è mossa in ritardo.
- Jourová, che si occupa di stato di diritto in Ue, spiega anche come si svilupperà il braccio di ferro tra Bruxelles, Varsavia e Budapest sui fondi europei congelati. E cosa sta facendo l’Ue per la libertà di stampa (anche in Italia). Con un avvertimento per TikTok...
Věra Jourová è vicepresidente della Commissione europea e ha le deleghe a Valori e Trasparenza. Di origine ceca, era a Bruxelles già con Jean-Claude Juncker presidente: dal 2014 al 2019 si è occupata di Giustizia e Uguaglianza di genere. Questa intervista si è svolta in diretta durante il festival di Scenari a Pesaro.
Lo scandalo corruzione ha travolto l’Europarlamento e la richiesta di istituire un organo etico indipendente è tornata in auge. La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen lo prometteva invano da anni. Lei ha da poco annunciato che a breve presenterà una proposta. Come mai ci è voluto così tanto e in cosa consisterà la proposta?
È da un paio d’anni che lavoro per disegnare un modello efficace di organo indipendente. Ho avuto interlocuzioni con l’Europarlamento, con il Consiglio e con le altre istituzioni che dovrebbero afferire a quest’organo. Ma ricevevo reazioni a dir poco gelide. Poi è arrivato lo scandalo Qatar: mina la fiducia degli europei nelle istituzioni. Quindi sono tornata alla carica, con argomenti più forti in mano. Per come lo intendo io, questo futuro organo etico avrà un raggio di azione molto ampio, coinvolgerà anche la Bce, la Corte di giustizia. Immagino un advisory board, un comitato consultivo, che delinei gli standard etici e che abbia la capacità di gestire per esempio condizioni di conflitto di interessi. Prefiguro anche un organo di appello, al quale si possano presentare reclami: qualcosa di molto concreto.
Quali sono le prossime tappe?
Una volta abbozzate le competenze e la composizione, a marzo inviterò i vertici di tutte le istituzioni europee coinvolte e faremo un incontro politico nel quale dovranno dichiararmi l’interesse o meno ad aderire al progetto. Un anno e mezzo fa, in un incontro analogo, molti di loro avevano respinto l’idea. Confido che lo scandalo li abbia spinti a rivedere le posizioni.
Lo scandalo ha colpito soprattutto i socialisti, ma i popolari non molto tempo fa remavano contro l’organo etico. Quali resistenze ha trovato?
Come avrà capito, fare la commissaria con delega a Valori e trasparenza significa farsi dei nemici: lottare per avere garanzie democratiche non è una passeggiata. Al momento posso dirmi certa di mettere a segno il progetto, anche perché nessun gruppo mi sta dicendo esplicitamente che si oppone. Certo, in Europarlamento ho sentito una serie di castronerie sull’organo etico, dunque sarà il caso che io chiarisca che cosa non sarà. Non sarà un organo che si sostituisce alle procure: chi spera che l’organo etico fermi gli eurodeputati in fuga con valigie piene di contanti sbaglia, perché quella è lotta al crimine. Non sarà neppure un organo che affronta ogni caso individuale di violazione etica: per fare ciò ogni istituzione ha i suoi organismi che non verranno smantellati; altrimenti dovremmo immaginare un colosso amministrativo, non un semplice organo. Infine l’independent ethics body non ci solleverà dai nostri obblighi etici: chi mi dice che senza organo etico non può esistere un’istituzione eticamente corretta ha frainteso.
Passiamo dalla trasparenza delle istituzioni alla democrazia dell’Ue. Per ristabilire lo stato di diritto in paesi come Ungheria e Polonia, lei stessa in una precedente intervista mi ha detto che l’articolo 7 non funziona. Congelare i fondi, come state facendo, basta invece?
Può sembrare un’ovvietà ma il vero potere di liberare l’Ue dagli autocrati è in mano ai cittadini al momento delle elezioni. La procedura dell’articolo 7 è stata attivata già anni fa verso Polonia e Ungheria ma non ha prodotto risultati perché richiede un consenso unanime degli altri governi. Oltre alle procedure di infrazione, abbiamo trattenuto i 35 miliardi che la Polonia avrebbe dovuto avere per il Recovery, e 13 miliardi all’Ungheria, verso la quale abbiamo anche attivato il meccanismo di condizionalità.
A quali condizioni sbloccherete questi fondi?
Nel caso di Varsavia, aspettiamo la firma del presidente che segnerà l’entrata in vigore della nuova legge che secondo noi potrebbe garantire l’indipendenza dei giudici. Se la riforma verrà adottata, libereremo le risorse. Nel caso di Budapest invece, il governo ha promesso di imbastire organi che rendano più trasparente lo stanziamento dei fondi europei e che dovrebbero agire contro la corruzione. In primavera faremo una nuova valutazione, e i governi dovranno decidere se rivedere la decisione sui fondi congelati.
Tra i motivi di perplessità sull’allargamento dell’Ue all’Ucraina e ad altri paesi c’è proprio il fatto che facciamo fatica a far rispettare le regole democratiche già al nostro interno. Che ne pensa?
Vivo una contraddizione interiore: da una parte il mio augurio è che l’Ucraina faccia le riforme ed entri il prima possibile, dall’altra sono consapevole che se non riusciamo a metter ordine dentro casa ne va della nostra credibilità; non a caso nel 2020 i criteri di ingresso sono stati irrigiditi. Invitare altri paesi a entrare nel club serve soprattutto sul piano geopolitico – e penso anche a Cina e Iran – dunque quando noi commissari siamo stati a Kiev abbiamo parlato con Zelensky di un ingresso graduale. Esistono molti stadi intermedi che possono anticipare l’entrata vera e propria nell’Ue.
La Commissione stila rapporti sullo stato di diritto in ogni paese Ue. In Italia abbiamo una premier che porta in tribunale i giornalisti. Cosa ne pensa?
Assistiamo a tantissime procedure civili o penali avviate da chi detiene potere politico o economico contro giornalisti o attivisti (le “slapp”). Penso alla giornalista maltese Daphne Caruana Galizia, e alla famiglia che ha ereditato i processi dopo la sua uccisione. Sto lavorando perché ci siano regole vincolanti che riequilibrino i poteri. Propongo che chi è colpito da una “slapp” possa far presente al giudice la natura artificiosa di quel procedimento, volto a mettere a tacere la libera stampa, e che il giudice possa quindi già a uno stadio molto preliminare dismettere il procedimento. Inoltre chi fa una “slapp” deve rimborsare chi la subisce per le spese che sopporta. Molti ministri della Giustizia però insistono con me sul fatto che non si può garantire impunità ai giornalisti e che anche i più ricchi e potenti devono poter aprire un procedimento.
Oltre all’iniziativa sulle “slapp”, lei ha costruito la proposta dello European Media Freedom Act. Mi dicono i ben informati che tra i grandi oppositori a questa iniziativa ci sono gli editori tedeschi, il che è paradossale: sul fronte del pluralismo, la Germania è lo stato Ue più in salute.
Il mio lavoro mi crea grandi nemici, e gli editori tedeschi sono fra questi, non tanto perché tedeschi, quanto perché editori. Finora l’Ue ha normato solo il settore audiovisivo, e siccome stiamo ora lavorando sul settore dell’informazione, loro sostengono che non dovremmo. Arrivano ad accusarmi di voler introdurre la censura in Ue; un’obiezione irricevibile. Piuttosto, che discutano di come migliorare la proposta. Se le democrazie mature ritengono di star già bene, la nuova proposta non ne abbasserà certo gli standard: li migliorerà per tutti. Preferisco gli appunti della presidenza svedese sul rapporto con le piattaforme digitali, perché in tal caso le note sono costruttive.
A proposito di piattaforme digitali, durante la nostra prima intervista – sotto la presidenza Juncker – lei era alle prese col caso Schrems, la battaglia per la privacy che ha fatto saltare il patto Safe Harbor sul trasferimento di dati dall’Ue all’Usa. Ora la Commissione ha messo al bando TikTok dai cellulari dei dipendenti.
Nel frattempo c’è stato anche il caso Schrems 2, e abbiamo cercato di migliorare gli accordi con gli Usa perché la privacy degli europei sia tutelata anche lì. Nel caso di TikTok, ho chiesto all’amministratore delegato: come può garantire che i nostri dati non finiscano in mano al regime? Lui dice che non li darà, ma io non posso credergli sulla parola. Quindi studieremo il caso, e se il garante per la privacy stabilirà che le norme europee (Gdpr) vengono violate, si potrà intervenire con multe o in ultima ratio con il divieto di operare sul mercato europeo.
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