Mario Draghi nel suo rapporto privilegia l’intelligenza artificiale come ambito di ricerca su cui l’Europa dovrebbe puntare. Ma ci sono dei rischi: il tessuto produttivo europeo non è simile a quello statunitense
Siamo all’inizio del 2000 e meno di 400 milioni di persone nel mondo ha accesso a internet. La rivoluzione digitale però sta prendendo piede e a marzo, nella capitale del Portogallo, il Consiglio europeo elabora un piano per affrontare la bassa produttività e la stagnazione economica. L’intento della “Strategia di Lisbona” è rendere l’Europa, entro il 2010, la più competitiva e dinamica economia del mondo, basata sulla conoscenza.
Per realizzare la knowledge-based economy, due anni più tardi, a Barcellona, viene fissato un obiettivo preciso: arrivare a spendere, entro la fine di quel decennio, il 3 per cento del Pil europeo in ricerca e sviluppo. Solo così sarà possibile dare linfa all’innovazione, motore dell’economia del nuovo millennio.
Nel 2010 la Strategia di Lisbona certifica il proprio fallimento. Viene allora sostituta da un altro piano decennale, “Europe 2020”, che ancora fissa l’obiettivo del 3 per cento in ricerca e innovazione (R&I). Nel 2020 viene nuovamente mancato.
I dati Eurostat certificano che la spesa europea in R&I nel 2022 si è fermata al 2,24 per cento, meno dell’anno precedente: 2,27 per cento. Gli Stati Uniti invece sono quasi al 3,5 per cento del proprio Pil, che da solo è circa un quarto di quello mondiale.
In cima alle priorità per risollevare la competitività europea, prima ancora di decarbonizzazione e sicurezza, il rapporto di Mario Draghi oggi mette proprio la filiera dell’innovazione, che sconta un notevole ritardo da quella statunitense e cinese.
La proposta
Per rinvigorirla, Draghi propone di cambiare diversi assetti del sistema, ma soprattutto di arrivare a raddoppiare il budget dedicato al programma quadro per il finanziamento di ricerca e sviluppo tecnologico (abbreviato in Framework Programme – FP). L’FP 9 tutt’ora in corso, “Horizon Europe”, ha una durata di 7 anni (dal 2021 al 2027) e una disponibilità di 95,5 miliardi di euro: dovrebbe arrivare a 200 miliardi di euro.
Il rapporto stesso si rifà alla definizione di economia della conoscenza: «La competitività oggi ha sempre meno a che fare con il costo del lavoro e sempre più con la conoscenza e le competenze incorporate nella forza lavoro».
Per ottenere questo valore aggiunto occorre investire in figure professionali qualificate, formazione di alto livello e ricerca. Mentre sia in Europa sia in Usa la spesa pubblica in R&I si aggira intorno allo 0,7 per cento del Pil, la grossa differenza si ha nell’investimento privato: nel 2021, le compagnie europee hanno speso circa metà in R&I rispetto alle statunitensi, in termini di Pil percentuale.
Le ragioni sono molte e tra queste c’è un panorama statico di investitori privati: negli ultimi decenni i tre più grandi sono sempre state compagnie dell’automotive, negli Usa invece sono state scalzate da compagnie di hardware e software prima e dalle Big Tech poi. «La mancanza di dinamismo dell’Europa si deve in gran parte alla debolezza lungo tutto il ciclo dell’innovazione, che impedisce a nuovi settori e nuovi sfidanti di emergere».
Le università e i centri di ricerca sono attori cruciali nella filiera dell’economia della conoscenza, ma sono solo il primo anello di una catena ben più lunga. Anche se sotto-finanziata in molti paesi, tra cui l’Italia, l’Europa sforna ottima ricerca. È agli stadi successivi che si inceppa la macchina dell’innovazione europea: solo un terzo dei brevetti registrati in Europa finisce per avere un ritorno commerciale. L’ingranaggio che non gira come dovrebbe è quello del trasferimento tecnologico, ovvero la capacità di trasportare un’idea innovativa dal laboratorio al mercato.
Il ruolo dell’Ia e i limiti
La proposta di raddoppiare i finanziamenti europei, e non quelli nazionali, rientra nella logica di affrontare i problemi europei da Unione. Draghi però fa un passo ulteriore, indicando la direzione verso cui puntare. Tra tutti gli ambiti che meriterebbero supporto infatti, dalla fisica alla biomedicina, passando per le scienze umane e sociali, il rapporto ne privilegia uno in particolare: l’intelligenza artificiale.
«In un mondo sul ciglio della rivoluzione dell’Ia, l’Europa non può permettersi di rimanere bloccata nelle industrie e nelle tecnologie del secolo precedente. (…) Deve integrare l’Ia nelle sue industrie esistenti, così da restare all’avanguardia». Insomma, colmare la distanza di innovazione da Stati Uniti e Cina coinciderebbe con la capacità di saltare sul nuovo treno economico dell’Ia, che non solo è una tecnologia di per sé innovativa, ma è anche un fattore abilitante per altre innovazioni, per la produzione di nuovi farmaci e nuovi materiali, per l’industria dell’auto e per la circolarità e la sostenibilità dei processi produttivi.
Questo è certamente vero, ma nel rapporto non viene adeguatamente considerata la possibilità che le cose per l’Ia possano non andare tutte per il verso giusto: valutazioni inflazionate delle start-up, scarsa regolamentazione, crescita dei costi di addestramento dei modelli, dubbia sostenibilità ambientale (i data center consumano enormi risorse energetiche e idriche) e dunque limiti sulla scalabilità sono tutte caratteristiche che potrebbero trasformare le altissime aspettative in una bolla tech.
Inoltre, l’Ia non è una tecnologia alla portata di chiunque. Per integrarla nel funzionamento quotidiano di un’azienda occorrono grandi quantità di dati, potenza computazionale per elaborarli, personale altamente specializzato e risorse economiche per pagare il conto.
Il tessuto produttivo europeo è diverso da quello statunitense: abbiamo una percentuale più alta di micro-imprese e, lo ricorda il rapporto stesso, esiste «un legame stretto tra dimensioni delle aziende e adozione tecnologica». Più piccola la dimensione, maggiori le difficoltà. Anche per questa ragione, l’Europa è indietro rispetto agli obiettivi della propria Agenda Digitale.
Il rapporto Draghi da un lato chiede all’Europa di essere lungimirante, di aumentare il finanziamento alla ricerca, come si è tentato di fare negli ultimi 25 anni almeno, senza mai riuscirci. Dall’altro punta quasi tutte le sue fiches su un unico cavallo, che promette tanto ma i cui ritorni verranno distribuiti per lo più tra grandi attori.
Negli ultimi decenni internet ha portato più produttività agli Stati Uniti, ma sono cresciute anche le disuguaglianze. Analogamente, l’Ia potrebbe aumentare i divari all’interno dell’Unione europea: in otto paesi l’intensità di investimento in R&I al momento è inferiore all’1 per cento.
Il caso italiano
E in Italia come vanno le cose? Molto peggio che nei paesi con cui dovrebbe concorrere, ovvero Germania e Francia. Nel 2022 abbiamo investito l’1,33 per cento del Pil in R&I, la Germania il 3,13 per cento, la Francia il 2,11 per cento.
Guardando al futuro le prospettive non sembrano rosee. Per Draghi l’investimento privato dovrebbe crescere, invece rischiamo di vedere calare anche quello pubblico. A settembre 2022, l’Accademia Nazionale dei Lincei aveva pubblicato un piano quinquennale, che proponeva di aumentare la spesa ordinaria in ricerca per evitare di vederla scendere dallo 0,7 per cento allo 0,5 per cento con la chiusura dell’apporto straordinario del Pnrr, dopo il 2026.
Si sarebbe dovuto trattare di un aumento progressivo, che ad oggi non c’è stato nella misura richiesta. Per predisporre il terreno all’arrivo dell’innovazione e incontrare davvero le ambizioni di sovranità tecnologica nazionali ed europee, ora messe nero su bianco dall’agenda Draghi, resta davvero poco tempo. Se l’innovazione è il motore dell’economia della conoscenza, la ricerca è il suo carburante.
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