«Le peuple». Quel «popolo» che per anni Marine Le Pen ha chiamato in causa come fosse lei a rappresentarlo, le ha inferto la sconfitta più umiliante che il Rassemblement National abbia vissuto, visto che stavolta nella vittoria sperava davvero.

Sono stati i francesi a chiudere all’estrema destra la porta lasciatale aperta da Emmanuel Macron in vari modi, non per ultimo il voto anticipato. L’hanno chiusa in modo inequivocabile, con una partecipazione record.

Dopo il secondo turno delle legislative, la prima forza politica di Francia è ora il nuovo Front populaire, la sinistra unita ed ecologista. Gli elettori hanno svegliato bruscamente Jordan Bardella dal suo sogno di governare il paese. Hanno spedito Marine Le Pen non in seconda ma addirittura in terza posizione.

E in seconda, hanno lasciato Ensemble, la forza presidenziale. Il presidente della Repubblica che sosteneva di aver convocato le elezioni per «fare chiarezza» ora l’ha avuta: i francesi vogliono un cambiamento, e non vogliono lasciarlo in capo all’estrema destra.

«Una nuova era è iniziata», ha detto Gabriel Attal annunciando poco dopo le nove di domenica sera le sue dimissioni. La composizione dell’assemblea (i 577 seggi) per come risulta dai dati finali: Front populaire 182 seggi; Ensemble 168 seggi; Rassemblement National e alleati 143; Repubblicani 45 e altri di destra 15; sinistra extra fronte 13; altri di centro 6; regionalisti 4; altri 1. 

«Ora governiamo»

«La sconfitta del presidente e della sua coalizione è evidente, Macron deve ammetterla e dimettersi. L’Eliseo chiami il Front populaire al governo». Il primo a parlare poco dopo la chiusura delle urne è stato Jean-Luc Mélenchon, il fondatore della France insoumise, il capro espiatorio prediletto di macroniani e lepeniani che volevano demonizzare e frammentare l’unione di sinistra.

La sinistra che il presidente aveva sperato di diaboliser come ha fatto in passato con Marine Le Pen si è dimostrata fino in fondo repubblicana desistendo sùbito in tutti i collegi nei quali era terza, a costo di far confluire i propri voti sugli esponenti più criticati della Macronie, da Gérald Darmanin, esponente dell’ala dura, a Élisabeth Borne, premier della riforma delle pensioni.

Adesso questa stessa sinistra è prima forza, in una elezione che esprime con altrettanta forza una istanza di cambiamento e il rifiuto dell’estrema destra. «La gente ha avuto paura, la gente ha vinto», ha detto Mélenchon.

Il punto è che la France insoumise resta una componente ingombrante nel Front populaire. Per quanto si dica di rapporti complessi coi socialisti – al punto che la leader ecologista Marine Tondelier è deputata a far da punto di riferimento e mediatrice – neppure l’ala più moderata del fronte potrà pensare di non fare i conti con gli Insoumis. Un fattore che per paradosso potrebbe complicare l’opportunità per la sinistra di governare; a meno che il fronte resti unito fino in fondo.

Un altro perno è possibile?

Mélenchon pone già le sue condizioni: nessun accrocchio, «nessuna coalizione». «Macron si dimetta e ci assegni il governo»: questa è la sua linea.

Cosa aspettarsi invece dal resto del fronte? La barriera messa dal leader degli Insoumis verso il dialogo con i centristi rischia di incastrare ancor più gli altri, che devono adesso far fronte a una doppia trappola: da una parte Mélenchon blocca eventuali coalizioni, dall’altra Macron sperava di pilotare lui una «federazione di progetto» attirando a sé l’ala più moderata del Fronte. L’unico modo per uscirne è provare a guidare una alternativa, dialogando sì, ma restando perni di una soluzione.

Sappiamo per certo che l’entourage macroniano in questi giorni ha cercato un dialogo con l’ala ritenuta più moderata del fronte: «Sì, ho ricevuto sms. Ma non ho risposto», aveva ammesso Raphaël Glucksmann, il socialista che con Place Publique ha rianimato il campo alle europee. Non solo a sinistra, ma ormai persino tra i macroniani stessi, diventa chiaro ormai che ad avvicinarsi troppo al presidente si rischia di far la fine di Icaro, e di trovarsi (politicamente) con le ali bruciate. «Federazione di progetto», l’ha chiamata il presidente, appellandosi a socialisti come Glucksmann e ecologisti.

Il punto non è tanto se un’ipotesi simile troverebbe interlocutori; di socialisti pronti a divorziare da Mélenchon se ne trovano, se ne sono visti in tv pure subito dopo il primo turno. Il punto è a quali condizioni avviare un dialogo: a sinistra non c’è solo l’Rn da schivare, ma pure una trappola piazzata lì dal presidente, e cioè quella di farsi frantumare o peggio ancora logorare dal campo macroniano uscendone a pezzi in vista delle presidenziali.

Il punto politico sarebbe quindi di agire da perno di un’unione, proiettandosi così verso il 2027. È ciò che ha provato a fare questa domenica sera il leader socialista Olivier Faure, dettando le sue condizioni. Prima fra tutte: passo indietro sulla riforma delle pensioni.

Eliseo in panne

«Non credo all’ipotesi di una grande coalizione»: che lo scenario sia a dir poco difficile lo ha già dichiarato uno dei politologi più ascoltati di Francia, Pascal Perrineau, professore emerito a Sciences Po. Quali ipotesi resterebbero?

In Francia negli ultimi giorni va molto di moda la «soluzione all’italiana» ovvero l’ipotesi di un governo tecnico guidato da una personalità rispettabile: i commentatori francesi guardano al modello Draghi. «Non è nella nostra tradizione ma bisogna fare di necessità virtù» secondo Perrineau, che parla di «parlamentarizzazione» della quinta Repubblica.

Resta un’altra opzione: che Macron accetti di dimettersi. Prima del voto aveva detto che non lo avrebbe fatto, ma questa domenica ha preferito trincerarsi all’Eliseo: pausa di riflessione?

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