Ammiccare ai socialisti mantenendo però lo sguardo puntato in direzione del monarca assoluto, che resta Emmanuel Macron: anche soltanto dalle citazioni che François Bayrou ha seminato questo venerdì nel suo tragitto fino a palazzo Matignon – cominciando con il fu presidente socialista François Mitterrand e concludendo con re Enrico IV – si coglie il vero spirito del suo mandato da premier appena cominciato.

Scegliendo una figura a lui vicina, e che è se possibile persino meno rappresentativa in aula rispetto al predecessore (i Repubblicani di Michel Barnier hanno 47 seggi in assemblea, il MoDem di Bayrou una decina in meno), il presidente della Repubblica francese rifiuta ancora una volta di prendere atto che la maggioranza relativa è del Fronte popolare, e alla coabitazione preferisce l’affitto di una dépendance, anche se l’inquilino è più che vivace. Con questa nomina, Macron non si distacca neppure stavolta dalla propria e personale strategia, concepita per salvare quel che può del macronismo declinante: Macron – e Bayrou per lui – si eserciterà quindi a guadagnare tempo, ad allontanare le presidenziali anticipate finché può, ma soprattutto a depotenziare una possibile alternativa a sinistra.

Nonostante la nuova nomina avvenga in piena continuità con i piani macroniani e con il suo mondo politico di riferimento, al punto che il nome di Bayrou era circolato già questa estate, prima che arrivasse Barnier, il dato politico è che nel frattempo i socialisti hanno prestato il fianco al «dialogo» con Macron, concedendogli così la scomposizione del nuovo Fronte popolare. L’esito per il partito socialista rischia di essere fallimentare: non ha ottenuto un premier di sinistra, e ha pure concesso al presidente di fratturare la sinistra.

Macronista ante litteram

Macronista ancor prima del macronismo, con i suoi appelli a «unire destra, sinistra e centro» lanciati già un decennio prima che Emmanuel Macron usasse questa chiave per aprirsi le porte dell’Eliseo, Bayrou ha nella sua biografia almeno due costanti: i ripetuti tentativi – sempre falliti – di arrivare all’Eliseo e la sintonia con l’attuale presidente. Come Michel Barnier, la sua storia politica è al contempo collaudata sul piano della presenza e degli incarichi ma incompiuta e realizzata nelle sue ambizioni. Sarà anche per questo che entrambi hanno accettato di assumere la guida di un governo col rischio che sia fragile e duri poco: non hanno molto da perdere.

«Sin dal giorno della mia nomina sapevo di avere il tempo contato», ha riconosciuto apertamente Michel Barnier nel passare il testimone a Bayrou, il quale sembra partire con altrettanto spirito: «Nessuno più di me conosce la difficoltà della situazione, so che le possibilità di disfatta sono di più delle opportunità di successo. Sarà come scalare l’Himalaya», ha detto questo venerdì pomeriggio il nuovo primo ministro, riferendosi al bilancio ma alludendo al resto.

Da quarant’anni con incarichi politici di qualche sorta (dal livello locale a quello europeo), Bayrou guida formazioni centriste sin dai Novanta, assestandosi alla guida del MoDem (Mouvement démocrate) dal 2007. Intrattiene cooperazioni coi partiti centristi europei – in primis con Francesco Rutelli ai tempi della Margherita – e con Rutelli fonda il Partito democratico europeo, del quale è tuttora presidente. Tenta più volte le presidenziali (2002, 2007, 2012), non arrivando a superare il 18 per cento che gli vale abbastanza da renderlo un possibile ago della bilancia nel 2007, quando decide al secondo turno di non schierarsi per Nicolas Sarkozy; sarà anche per questo che in settimana si è rumoreggiato che Sarkozy, tuttora capace di influenzare Macron, avesse provato a osteggiarne la nomina.

Ma è il 2017 l’anno chiave per comprendere perché Bayrou sia arrivato a Matignon: nell’anno in cui il macronismo attraversa la fase ascendente e Macron concorre per la presidenza, lui decide di non correre e gli propone un accordo per non disperdere i voti; una convergenza. Macron accetta, e una volta presidente lo fa promuovere a ministro della Giustizia. Dura poco: a seguito di uno scandalo giudiziario (personale di MoDem retribuito attraverso impieghi fittizi come assistenti parlamentari) Bayrou si dimette. Ma resta legato al presidente, e in virtù di questo sodalizio nel 2020 va a dirigere l’”alto commissariato generale al piano” (di investimenti per «l’innovazione»).

Il futuro del governo

Lo aveva già detto Macron pochi giorni fa: allo stato attuale non ci sono le basi per credere che il nuovo governo poggi su un sostegno diverso da quello di Barnier; ma qualcosa sotto traccia è cambiato. Quel che è evidente è che Bayrou dovrebbe poter contare sui macroniani e guardare al centrodestra. Il suo riferimento al «debito come questione morale» parla anzitutto a quest’area. Quanto a Marine Le Pen, il rapporto personale tra i due è oliato dalle concessioni: Bayrou le ha dato la sua firma («parrainage») perché la leader potesse accedere alle ultime presidenziali, e ha auspicato che gli scandali giudiziari non le impediscano di concorrere alle prossime; entrambi puntano a un sistema proporzionale. La scelta di convocare questo venerdì sera a Matignon Bruno Retailleau – che sotto il governo Barnier ha incarnato le aperture alla destra estrema – lascia intendere che il dialogo prosegua. Ma Le Pen punta all’Eliseo, dal premier si aspetta solo che metta a segno il bilancio, e ai suoi elettori dice: «Così come non brandisco la sfiducia a priori, non rinuncio a usarla se serve».

Le ambiguità vengono da sinistra: mentre la France insoumise è nettamente contro, il resto del Fronte popolare ha accettato di negoziare un accordo di non censura. Macron non nomina premier di sinistra ed è probabile che le poche concessioni di Bayrou – il quale evoca Enrico IV per la fine delle guerre di religione – non compensino il costo enorme di una rottura dell’unione. Infatti i socialisti si dichiarano «all’opposizione». Ma chiedono di non ricorrere all’articolo 49.3 e aprono alla trattativa per «evitare un’altra sfiducia». Una tolleranza dei 66 eletti socialisti sposta gli equilibri; l’ala centrista – Glucksmann per dirne uno – spinge per questa opzione e per sganciarsi da Mélenchon. Gli ecologisti non negano l’opzione del dialogo (ma con proteste interne), mentre i comunisti di Fabien Roussel la spingono: «Niente politica della sedia vuota». Da questa dialettica si determineranno le presidenziali.

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