Le aree interne sono quelle a maggior rischio di spopolamento e spesso anche le più trascurate dalla politica. Nell’appennino reggiano i fondi Ue per la coesione hanno generato sinergie anche tra i produttori di parmigiano
Tra il 2014 e il 2020 le aree interne italiane – quel 60 per cento di territorio nazionale che perde popolazione a ritmi più elevati che il resto del paese – sono state oggetto di una politica volta a dar loro nuova vita attraverso la cosiddetta Strategia nazionale per le aree interne (Snai), promossa dall’allora ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca.
Si è deciso di tornare a investire in aree dimenticate nel discorso pubblico e trascurate dalla politica, nella convinzione che contengano una parte consistente del futuro del nostro paese, facendo perno sia su fondi ordinari dello Stato, per migliorare la qualità e quantità di servizi pubblici sul territorio, che sui fondi europei di Coesione, attraverso un disegno capace di valorizzare il sapere e le economie diffuse sui territori. I cittadini, gli operatori economici, gli amministratori sono stati chiamati a disegnare una strategia territoriale connessa alle esigenze e alle opportunità del contesto locale.
Il progetto Coesione Italia, realizzato dal quotidiano Domani assieme alla Fondazione Basso e al Forum Disuguaglianze e Diversità, è nato proprio per indagare, attraverso un tour nelle regioni italiane, come vivono i progetti sui territori, promuovendo una riflessione collettiva sul ruolo e l’utilità e il fine ultimo dei fondi di coesione.
Una tappa del progetto è stata dedicata agli effetti sulle comunità di riferimento delle aree interne dei fondi di coesione. Se ne è discusso a Castelnovo ne’ Monti, sede del comune capofila del progetto “Montagna del latte”, che ha messo insieme 12 comuni dell’appennino emiliano, e che come tutte le strategie prova a dare continuità e integrazione a una serie di interventi puntuali sul territorio per metterli in una condizione di contribuire a un disegno condiviso.
Tra gli interventi che sono stati finanziati con circa 28 milioni di euro complessivi, ce ne sono stati alcuni mirati a costruire una filiera “orizzontale” della produzione del parmigiano reggiano: 11 caseifici hanno potuto fare investimenti nelle loro strutture, ampliando i magazzini e le sale di lavorazione, rinnovando o costruendo ex novo i punti vendita. Le stalle (i conferitori del latte) hanno investito in interventi finalizzati al benessere animale, con l’obiettivo di qualificare, anche dal punto di vista della sostenibilità, le produzioni.
Una montagna più coesa
«Cosa ci hanno lasciato i fondi per le aree interne, dopo sette anni di lavoro? Intanto che ci siamo tutti conosciuti», racconta Alberto Lasagni di Confcooperative. «Sembra una banalità, ma in montagna, al di là della retorica sull’“andare tutti insieme”, non è affatto scontato che non ci si percepisca come dei concorrenti. È stato complicato, una gran fatica.
L’orizzonte ultimo di arrivare a commercializzare insieme non è stato ancora centrato ma questa prima fase ha permesso la nascita di attività (prima inesistenti) di collaborazione, di scambio di informazioni sui mercati e di confronto sulle iniziative di sviluppo da intraprendere. Ha permesso di costruire un nuovo progetto d’area, “la montagna dei saperi”, che prende le mosse proprio da dove ci si era fermati. Oggi parliamo di acquisti collettivi, cosa impensabile fino a poco tempo fa».
Nelle aree interne, l’esperienza maturata negli ultimi anni dalla Snai sembra indicare che la scommessa per la valorizzazione di queste aree è proprio quella di produrre beni comuni, materiali e immateriali, in ambito di servizi pubblici, qualità dell’ambiente, ma anche di tutto ciò che è frutto della creazione collettiva, ad esempio le economie di filiera e la conoscenza, e dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso.
«Il filo conduttore di tutte le progettualità della strategia della montagna del latte puntano al riallestimento comunitario», dice Giovanni Teneggi di Confcooperative, per il quale la desertificazione della capacità dello stare insieme che riguarda le aree interne è peggiore dello stesso calo demografico. La «manifattura comunitaria» è – secondo Teneggi – la filiera socio economica specifica che le politiche di coesione devono sostenere.
Bene comune d’Europa
Da questo punto di vista le aree interne rappresentano una frontiera nella sfida per un nuovo modello economico europeo. Ma non solo. Spostano più avanti e più a fondo l’idea democratica estendendola alla lotta alla marginalizzazione sociale ed economica che oggi vivono interi pezzi del continente.
«Vale la pena ricordare che il Parmigiano reggiano, che è conosciuto ovunque per le sue fantastiche qualità nutrizionali, ha una caratteristica produttiva unica: nasce e si sviluppa come prodotto cooperativo di una filiera orizzontale. La sua remunerazione è democratica ed ha una relazione biografica con chi vive i territori di produzione».
Il tema della democrazia reale, dell’accesso ai servizi essenziali che garantiscono pari condizioni a tutti i cittadini, che permettono la libertà degli individui e l’accesso alle risorse è oggi centrale non solo nel nostro paese. È il fine ultimo per il quale le stesse politiche di coesione sono nate. Non è possibile alcuna crescita senza democrazia, scriveva alcuni anni fa Amartya Sen.
Le aree interne – seppur includano ambienti molto differenti e ambiti amministrativi non sempre omogenei – non sono un’espressione geografica; rappresentano uno strumento di misurazione dello stato del sistema democratico dei territori, che, soprattutto ai suoi margini, si sta rapidamente deteriorando.
È il metodo inclusivo della coprogrammazione con le comunità locali sperimentato dalla Snai che la regione Emilia Romagna ha deciso di mettere al centro della nuova programmazione dei fondi di coesione per il settennio 2021-2027 per le aree interne, dice Natalina Teresa Capua, coordinatrice delle attività delle aree interne per la Regione Emilia Romagna, «perché è stato in grado di stimolare le persone a mettersi in gioco, e ci sono molte storie da raccontare, come quelle della montagna del latte, più di quelle che sono state raccontate».
Facendo leva sull’obiettivo strategico 5 delle politiche di coesione, “Un’Europa più vicina ai cittadini”, la regione ha stanziato 90 milioni di euro nel nuovo progetto Stami (Strategie territoriali per le aree interne e montane) proprio per confermare la centralità della conoscenza diffusa nei processi di trasformazione, attraverso una riflessione continua e condivisa sul patrimonio dei territori.
Dalle ceneri e in continuità con la strategia “La Montagna del latte”, è nata una nuova programmazione, che non ha caso, è stata chiamata “La montagna dei saperi”, ponendo l’accento sugli effetti “generativi” che hanno prodotto le strategie per le aree interne in tutto il paese.
Ce ne sarebbero molte di storie di effetti generativi sul territorio, come quella della Montagna del latte, innescati dai fondi di coesione. I sistemi di valutazione della spesa pubblica però non permettono di misurarne la reale efficacia, a causa dell’'eccessiva rigidità dell'approccio settoriale che ispira la programmazione nazionale e regionale che spesso non incontra i bisogni integrati provenienti dai territori, impedendo in fase programmatoria di avere un approccio flessibile alle richieste dei cittadini e riducendo la valutazione ad una sola misurazione di output costi-benefici, senza tener conto dei reali effetti degli investimenti sulla vita delle persone.
È necessario perciò pensare a nuovi strumenti di valutazione per le strategie, che possano cogliere la dimensione generativa nel tempo delle politiche di coesione, e non affidarsi al solo calcolo costi-benefici immediato, che finisce per guardare alla distanza come un costo, al welfare come una spesa improduttiva, all’integrazione orizzontale come una faticosa perdita di tempo.
Questo contenuto giornalistico fa parte del progetto “#CoesioneItalia. L’Europa vicina”, che è finanziato dall’Unione europea. I punti di vista e le opinioni espresse sono tuttavia esclusivamente quelli dell’autore e non riflettono necessariamente quelli dell’Ue. Né l’Ue né l’autorità che eroga il finanziamento possono essere ritenute responsabili per tali opinioni.
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