Finora aveva toccato solo la banca russa a Budapest. A fine mandato il presidente dem colpisce il perno del sistema orbaniano. Il momento debole vanifica il gesto forte: la mossa che avrebbe potuto assestare un colpo duro all’autocrate appare oggi come un colpo di coda e rischia di sottolineare ancor di più che l’epoca di Biden è già finita e anche quella della difesa dello stato di diritto è in difficoltà
A volte i tempi sono tutto, o quasi. Con altre tempistiche, la decisione degli Stati Uniti di sanzionare un membro di un governo Ue – e non uno di poco conto ma l’uomo chiave di un premier e il perno del suo sistema – sarebbe stata considerata a tutti gli effetti epocale. Invece arriva solo a conclusione del mandato di Joe Biden, l’inserimento nella lista dei sanzionati di Antal Rogán, il potente ministro ungherese che controlla i servizi segreti.
La mossa che avrebbe potuto assestare un colpo duro all’autocrate Viktor Orbán appare oggi come un colpo di coda e rischia di sottolineare ancor di più che l’epoca di Biden è già finita e anche quella della difesa dello stato di diritto è in difficoltà. In questa accezione è in effetti un’azione epocale, un po’ come l’annuncio tardivo dello stop alle trivelle – mossa identitaria ed ereditaria nelle intenzioni del presidente uscente – non fa che segnalarci il passo pesante col quale Trump «trivellerà» (lo annuncia) a tutta forza.
La ragione per cui Orbán è stato il primo premier europeo a esporsi sfacciatamente per il magnate è proprio che riteneva di avere ben poco da perdere coi democratici e quindi – nonostante le divergenze sulla Cina – molto da guadagnare con Trump, almeno in termini di compiacenza tra illiberali. La strategia ha già funzionato in passato, come quando nel 2018 il presidente populista al suo primo mandato spedì a Budapest a fare l’ambasciatore David Cornstein, uomo d’affari incaricato proprio di favorire buoni rapporti.
Non per caso, appena è stata diffusa la notizia delle sanzioni contro Rogán, il governo ungherese ha sùbito sventolato la carta del sodalizio con Trump (Zoltán Kovács dà per certo che «una volta insediata, la nuova amministrazione prenderà le misure legali necessarie» per rimuovere le sanzioni); immediatamente Bryan Leib, che viene accreditato (anzitutto dalla galassia orbaniana) come il futuro ambasciatore degli Usa a Budapest, è corso a dire a sua volta che dal 20 gennaio gli Usa «non si intrometteranno più». Così persino i media indipendenti, in Ungheria, hanno preso a domandarsi non gli effetti delle sanzioni ma con quale rapidità il nuovo inquilino della Casa Bianca imporrà la retromarcia.
La scelta simbolica
Rogán, «anche nel ruolo di ministro responsabile dell’ufficio di gabinetto di Orbán, ha ripetutamente orchestrato piani per controllare settori strategici dell’economia ungherese» e «ha svolto un ruolo centrale nell’abilitare un sistema di cui lui e il suo partito hanno beneficiato a discapito degli ungheresi». Così l’amministrazione Usa motiva il provvedimento (un “blocco della proprietà di persone coinvolte in gravi violazioni dei diritti umani o corruzione” nel quadro del Magnitsky Act): «L’attività di Rogán è emblematica anche del clima di impunità che vige in Ungheria, dove pezzi chiave dell’apparato statale sono stati colonizzati da oligarchi e attori antidemocratici».
Nei momenti di massima tensione geopolitica con Orbán (ad esempio quando teneva in ostaggio l’ingresso di nuovi membri nella Nato) l’attuale ambasciatore David Pressman aveva effettivamente fatto intendere che le sanzioni potessero un giorno toccare il governo, ma l’unica iniziativa concreta era arrivata nell’aprile 2023 e aveva colpito in modo mirato la partecipazione ungherese alla banca russa degli investimenti; aveva peraltro funzionato, dato che sùbito dopo Orbán ha imposto il ritiro. Rogán è un pezzo chiave del sistema orbaniano – lo dice da mesi Péter Magyar, che da lì proviene, prima di essere diventato l’avversario che supera Fidesz nei sondaggi – ma Biden abbaia senza che Trump morda.
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