Joc Podlesnik ha 59 anni e trattiene tra le dita una sigaretta mentre passeggiamo in piazza Prešeren, forse la più bella di Lubiana. Io e il suo caro amico Andraž Rožman – scrittore, giornalista e attivista – chiacchieriamo e Joc ci segue a poca distanza: ogni tanto si allontana, poi ci raggiunge; saluta una vecchia conoscenza, si accende un’altra sigaretta, recupera una scatoletta di cibo da chissà dove e si ferma a fare una telefonata.

Le estati insolitamente calde che Lubiana ha vissuto negli ultimi anni non disturbano Joc mentre gira per la città. Per sfuggire al caldo, che sfianca le persone e le lascia senza fiato, nuota nel fiume Ljubljanica. Questa città e queste strade sono la sua casa e ogni volta che è stato costretto a lasciarle, nel corso della sua vita, ha sofferto.

Jan con uno dei suoi dipinti preferiti, dell'impressionista slovena Ivana Kobilca. Foto di Klara Širovnik

Ci stiamo dirigendo verso la sede dell’organizzazione Kralji ulice – "re della strada" – dedicata alle persone bisognose, che pubblica un proprio giornale. Grazie alla vendita di questo giornale, che costa un euro, molte persone tossicodipendenti, senzatetto o con disturbi mentali possono guadagnarsi da vivere in Slovenia. Fuori dall’edificio dell’organizzazione si è radunata molta gente, per lo più uomini. Vengono qui per vendere i giornali o cercare conforto.

Al momento Joc non fa parte dei venditori, ma visita regolarmente l’organizzazione. A Kralji ulice ci sono dei suoi amici che è felice di incontrare, e si sente al sicuro. Oggi riceverà anche un pass gratuito per un’imminente partita di basket, che per un tifoso appassionato come Joc è «una necessità assoluta!».

Joc nella sua camera da letto, che riflette la molteplicità dei suoi interessi. Foto di Klara Širovnik

Da bambino, Joc voleva studiare storia e geografia. Era attratto da paesi esotici e città straniere. Dopo che gli è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide, è stato ricoverato in un reparto psichiatrico e i suoi progetti sono andati in fumo. «Quando sono stato ricoverato per la prima volta nel 1982, mi hanno lavato come un maiale, con acqua fredda e un tubo nero», ricorda. «La parte più spaventosa è quando devi spogliarti. Due uomini enormi, tecnici sanitari, ti accompagnano allo spogliatoio. Se sei troppo lento, rischi di essere colpito». 

Andraž commenta che «la storia di Joc testimonia la situazione del nostro sistema di salute mentale. Ma è anche una storia sul presente: le condizioni negli istituti psichiatrici chiusi non sono cambiate molto fino ad oggi. Solo i metodi sono leggermente diversi». Lo scrittore non è sorpreso dalle condizioni disumane in cui le persone con problemi di salute mentale hanno vissuto – e continuano a vivere – in Slovenia.

Qui, rispetto ad altri stati membri dell’Ue, la deistituzionalizzazione è iniziata tardi e a un ritmo più lento. In Italia, ad esempio, il processo era al suo apice nel 1980 e il ricovero in istituto era vietato per legge; le persone con disturbi mentali gravi e cronici venivano assistite in diversi centri di salute mentale regionali. Un’iniziativa che non ha trovato riscontro oltre frontiera, in Slovenia.

La retorica che giustificava la decisione di non avviare la deistituzionalizzazione sosteneva che vi fossero numerosi difetti in questo processo, nonché possibili effetti negativi, come un presunto aumento dei senzatetto e la mancanza di assistenza per i pazienti psichiatrici. Ad oggi, nessun istituto in Slovenia è stato completamente chiuso; gli istituti per lungodegenti e le unità istituzionali stanno addirittura crescendo o sono in fase di rinnovo.  Le opportunità di reinsediamento nella società sono limitate.

Violenza legalizzata

Come attivista e scrittore, che esplora anche i problemi di salute mentale nei suoi documentari, Andraž ha sentito decine di storie simili a quella di Joc. Alcune delle violenze negli ospedali psichiatrici sono legali – come l’essere legati per quattro ore – e altre non lo sono, ma esistono comunque (come le eccessive misure di contenimento, fino a dieci giorni, la disidratazione intenzionale e le percosse genitali). «Le persone vengono in psichiatria con la paura, angosciate e spesso esprimendosi in maniera aggressiva. In cambio, ricevono coercizione e violenza. I farmaci vengono forniti, ma non c’è abbastanza terapia basata sul dialogo», continua Andraž.

Quando Joc ha iniziato la sua «carriera da pazzo», come la descrive lui stesso, c’erano altri metodi, come l’elettroshock e la terapia con l’insulina. Questi metodi non vengono più applicati, ma la violenza persiste. Andraž, che lavora quotidianamente con persone che hanno vissuto o vivono in questi istituti, dice: «Gli operatori spesso trattano le persone non come soggetti ma come oggetti, senza credere che la volontà della persona interessata abbia un valore. Per cambiare questa situazione, è necessario un cambiamento fondamentale nel pensiero e nel sistema».

Joc è un uomo molto riflessivo. Mentre camminiamo verso il suo appartamento dall’altra parte di Lubiana, parla di cambiamenti climatici, calcio, vendite di antiquariato e pesca. I suoi tanti interessi sono evidenti nella sua stanza parecchio disordinata, in cui si fa fatica ad entrare per il numero di oggetti.

Le pareti sono ricoperte di fotografie di sportivi famosi e di imitazioni di opere d’arte. Gli scaffali sono tappezzati di libri, riviste e album fotografici contenenti immagini di persone con cui Joc non ha più contatti e di altre che continua a frequentare. Quando non si incontrano nel centro di Lubiana per un caffè e un croissant, è qui che Joc e Andraž trascorrono il tempo insieme.

Da sinistra, Joc con il suo caro amico Andraž Rožman, scrittore, giornalista e attivista. Foto di Klara Širovnik

«Quando si parla della casa, Joc è sempre sul chi va là», dice Andraž seduto nella stanza del suo amico. Per un po’ ha vissuto in un appartamento di sua proprietà, poi è stato inserito in una casa famiglia dell’Associazione slovena per la salute mentale (Šent) e si è ritrovato senzatetto per un breve periodo. Nel 2017 si è trasferito in un appartamento del Ljubljana Housing Fund – la sua attuale sistemazione – che è un “istituto senza personale”.

Ogni abitante di Lubiana può teoricamente fare domanda per un alloggio di questo tipo. Se si soddisfano i criteri di ammissibilità (tra cui disoccupazione, disabilità, vulnerabilità sociale), ci si può aspettare che la domanda venga approvata. Tuttavia, questo non è un luogo in cui le persone con disabilità mentali, comprese quelle che sono state in istituti per lungo tempo, ricevono assistenza per le attività quotidiane che potrebbero non essere in grado di svolgere da soli, per l’assistenza fisica se ne hanno bisogno o per le terapie di cui potrebbero necessitare.

L’edificio, con i suoi lunghi corridoi bianchi e i bagni in comune, ospita persone di ogni provenienza, con problemi di salute mentale, senzatetto... Persone che hanno commesso violenza e persone che ne sono state vittima. C’è la possibilità che Joc si ritrovi di nuovo per strada, e sebbene sia uno dei pochi che è riuscito a lasciare l’assistenza istituzionale – almeno in parte – la sua vita avrebbe potuto essere diversa con il giusto sostegno.

Il museo della follia

L’offerta di un supporto adeguato in Slovenia è ancora in fase iniziale e gli istituti chiusi hanno una lunga storia. Andraž ricorda uno dei primi istituti ad essere stati chiusi in Slovenia: quello di Trate, operativo nel Castello di Cmurek dal 1949 al 2004 (e che fa parte del più grande Istituto di Hrastovec, che gestisce diversi rami, alcuni dei quali sono ancora attivi oggi). All’inizio l’Istituto di Trate era riservato ai malati gravi e agli infermi e successivamente ai pazienti neurologici e mentali.

I corridoi del castello, oggi diventato il Museo della follia. Foto di Klara Širovnik

Il castello si trova al confine con l’Austria; il fiume Mura, la naturale linea di demarcazione, scorre sotto le mura. Darja Farasin e Sonja Bezjak abitano a Trate. Sono cresciute vicino all’istituto dove all’epoca vivevano 350 pazienti 24 ore al giorno. Mentre attraversiamo il castello, grande e freddo, Sonja ricorda: «Le persone residenti nell’istituto a volte passeggiavano per il villaggio, ma non c’era alcun contatto significativo tra loro e la gente del posto». A vent’anni dalla chiusura, Sonja ritiene «un orgoglio che il primo “istituto totale” sloveno sia stato chiuso qui, nel 2004».

Per evitare che il castello cada in rovina – e per trarre insegnamento dalla storia recente – le ex “corsie dei pazienti” sono state trasformate in un museo della follia. Sonja ne è la direttrice. È molto appassionata della gestione del museo, un lavoro che svolge su base volontaria e senza retribuzione. «Questa è la nostra eredità e con questo museo vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica e contribuire al rispetto dei diritti umani delle molte persone che ancora oggi vivono negli istituti. Dobbiamo contrastarli», dice.

Letti contenitivi a Trate. Foto di Klara Širovnik

La creazione di istituti come quello di Trate è iniziata con l’industrializzazione, quando le persone hanno iniziato a lavorare fuori casa e non erano più in grado di prendersi cura dei parenti disabili. Durante l’occupazione nazista della Stiria slovena nel 1941, molti malati mentali furono giustiziati (circa 600 persone disabili della Stiria slovena vennero portate nei campi di sterminio in Austria), e dopo la guerra, castelli e palazzi furono nazionalizzati.

Molti divennero luoghi di assistenza istituzionale (orfanotrofi, ospedali, case per anziani e disabili...). Poiché le persone non erano identificabili, i documenti lasciati a Trate testimoniano che furono dati loro nomi come “la Donna mutante”, o “Julka la sordomuta”.

Fino al 1970, all’istituto di Trate c’era uno stile di vita più “tradizionale”: le persone, allora chiamate “pazienti”, lavoravano nei campi e nelle stalle. Gli standard sono migliorati con il socialismo, quando lo stato ha concluso che non si poteva vivere in quelle condizioni, così sono stati introdotti il riscaldamento centrale e i servizi igienici ed è stato assunto del personale infermieristico qualificato.

«Le condizioni sanitarie erano disastrose. Anche il lavoro nei campi fu abolito perché percepito come sfruttamento. Ma sopravvivere senza lavoro divenne a suo modo più difficile: 350 persone erano ormai intrappolate dentro le mura», continua la collega Darja. Le stanze testimoniano ancora lo stato dell’istituto poco prima della sua chiusura. Le finestre erano opacizzate: i pazienti non potevano vedere fuori. Nella sala da pranzo non c’erano posate. La massa disumanizzata si gettava il cibo addosso e mangiava con le mani.

All'interno del castello i vetri sono opacizzati così da non far trasparire il mondo esterno. Foto di Klara Širovnik

Anche gli operatori erano in grave difficoltà: di notte uno o due di loro dovevano assistere fino a 120 persone. La mancanza di terapia veniva compensata con pillole, barriere tecniche, misure di contenimento e camicie di forza. Le donne erano particolarmente vulnerabili. Alcune di loro, dopo aver subito abusi prima di entrare nell’istituto, vennero sottoposte a misure di sterilizzazione e contraccezione forzate, aborti e allontanamento dai figli. Le valigie e tutte le cose che erano state sottratte con la forza alle persone venivano lasciate nel castello.

Neanche il personale era soddisfatto del modo in cui le persone venivano assistite, racconta Sonja, che ha contribuito a raccogliere le testimonianze degli ex dipendenti. La mancanza di igiene e il sovraccarico di lavoro erano particolarmente preoccupanti. 

Mentre in molti altri paesi il processo di deistituzionalizzazione è in corso da tempo, in Slovenia gli istituti sono ancora solidi. Oggi, circa 2700 persone vivono in istituti speciali e circa settecento in reparti chiusi, come si legge nella Strategia di deistituzionalizzazione, un documento interno del Ministero degli Affari sociali sloveno. La legislazione attuale consente un ulteriore aumento del numero di posti letto, contravvenendo alle linee guida dell’Ue e alla Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità.

«La libertà è terapeutica»

Con l’aiuto di due finanziamenti europei, le cose hanno iniziato a prendere un’altra direzione. Uno di questi prevede il trasferimento dei residenti dalla struttura istituzionale Dom na Krasu a Dutovlje, al confine con l’Italia, in case di accoglienza comunitarie; il progetto vale 2,2 milioni di euro, di cui circa 1,8 dal Fondo sociale europeo. Si fonda sulla salvaguardia della dignità e sull’idea di prendere parte attiva alla propria vita. L’obiettivo è il reintegro nella comunità, e finora 171 persone sono state trasferite dagli istituti alle case famiglia. Il progetto segna l’inizio della fine dell’"istituzione totale" in questa parte di Slovenia.

Il dialogo con la comunità è fondamentale per il successo dell’integrazione in un nuovo ambiente, ma non è sempre un percorso facile. Il progetto finanziato dall’Ue a Dutovlje ha incontrato la resistenza della cittadinanza locale. «Ovviamente c’è paura, ma la questione è quanto aumenta e come si genera l’escalation della paura. L’idea principale del progetto è quella di lavorare su tutti i livelli: utenti, parenti, personale, comunità in generale», spiega il direttore Goran Blaško.

Il progetto, con le sue scadenze e i suoi requisiti, ha anche limiti. Ha una durata di soli tre anni. Un altro problema importante è il sovraffollamento e la mancanza di spazio, soprattutto per le persone sottoposte a provvedimenti giudiziari. Ci sono stati casi in cui le persone sono state costrette a dormire nel corridoio. 

Mentre usciamo dall’appartamento di Joc, Andraž ricorda che un tempo preparava i pancakes per gli abitanti dell’istituto di Dutovlje, che ora è in fase di transizione. Una delle persone che vivevano lì non aveva i denti. Non gli era permesso mangiare i pancakes per paura di soffocare. «Avrebbe dato qualsiasi cosa per quel pancake. Era diventato aggressivo perché era l’unico a non poterlo mangiare. Mi sono chiesto cosa fare e ho tagliato il pancake in pezzi molto piccoli», ricorda. Immediatamente il comportamento e l’atteggiamento dell’uomo sono cambiati.

«Gli ho chiesto se potevo preparargliene un altro. Mi ha detto di no, e che ne dovevano rimanere un po’ per gli altri». Cosa ci dice questo? «Come si diceva a Trieste: la libertà è terapeutica. Dobbiamo aprire le porte degli istituti e permettere una vita indipendente», sostiene Andraž.

Dopo avermi salutata, Andraž e Joc sono andati a prendere un altro caffè. Joc sta preparando un’altra campagna pubblica sull’importanza della deistituzionalizzazione in Slovenia. Continua a lottare ogni giorno e Andraž lo aiuta come può. Ma il fatto è che, sebbene Joc abbia grandi ambizioni, la vita continua e, alla fine della giornata, si preoccupa ancora di dove vivrà, di cosa mangerà e di come andrà a finire la tanto attesa partita di basket.

Da una decina d’anni, gran parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale ha avviato un processo di deistituzionalizzazione dell’assistenza alle persone con disturbi psichiatrici. Ma non tutti i paesi procedono alla stessa velocità. In Slovacchia il processo sembra essere addirittura a un punto morto, osserva Vesna Švab, psichiatra slovena membro della rete Mental Health Europe.

Se la Slovenia fatica a cambiare direzione per l’assistenza alla salute mentale, si può dire che in Slovacchia la situazione sia molto simile: formalmente, c’è un impegno a deistituzionalizzare da un decennio, e anche questo paese ha ricevuto fondi europei per sostenere la transizione. Ma i risultati sono scarsi. Ecco perché, in Slovacchia come in Slovenia, la situazione viene denunciata dall’Ue, dagli utenti e dalle associazioni.

Prodotto in collaborazione con ereb, media parigino e piattaforma di giornalismo narrativo. Questo articolo fa parte della serie YOUTHopia, una serie sul giornalismo delle soluzioni e la politica di coesione europea. I reportage di ereb sono disponibili in francese, italiano e inglese su www.ereb.eu. Testi e foto, diritti riservati © ereb SAS

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