«Syria is a mess, la Siria è un casino», dice Trump invitando al disimpegno. La presa di Damasco segna la fine politica del dittatore siriano, ma il futuro si annuncia pieno di zone d’ombra. Nel frattempo tutto il mondo si riorienta, da Netanyahu che va a prendersi il Golan all’Europa titubante
«Syria is a mess, la Siria è un casino», si è affrettato a dire il presidente eletto statunitense Donald Trump, aggiungendo a caratteri cubitali, com’è nel suo stile: «NON FACCIAMOCI COINVOLGERE». Il cambio di regime «presenta rischi e opportunità», è arrivata molte ore dopo Ursula von der Leyen, coinvolgendo invece l’Ue «nella ricostruzione del paese».
Con la caduta del regime di Bashar al Assad, tutto il mondo si riorienta; c’è persino chi, come il premier di estrema destra israeliano, dà subito mandato al suo esercito di «prendere il controllo» delle alture del Golan, con corollario di bombe piovute sulla Siria.
L’interruttore definitivo che segna lo spegnimento del regime di Assad scatta nelle prime ore di questa domenica, quando cade la capitale, e come spesso nella storia, vengono abbattute statue della famiglia Assad, mentre il presidente è già fuggito a Mosca.
La presa del palazzo
«Nel nome di Allah, abbiamo rovesciato il tiranno Assad, abbiamo liberato i prigionieri dalle carceri». Dopo aver espugnato Damasco, i guerriglieri hanno fatto irruzione nella tv statale, lasciando distruzione al loro passaggio, e poi un messaggio: Assad è finito.
Nella mattina di domenica prosegue l’assalto al palazzo presidenziale, mentre il centro della capitale si agita sotto le raffiche di spari: «Sono celebrazioni», si affrettano a rassicurare i cronisti presenti sul posto. I ricordi delle pesanti violazioni dei diritti umani e delle sofferenze perpetrate da Assad – che spingono i siriani in piazza a «celebrare» – si affiancano a quelli del precedente libico, nel quale alla caduta del dittatore Gheddafi hanno fatto seguito anni di crisi istituzionali, faide e risvolti fallimentari.
Chi ha preso Damasco? In un contesto nel quale sono presenti vari gruppi armati, l’offensiva degli scorsi giorni ha visto prendere il largo l’Hayat Tahrir al-Sham (Hts), che aveva come avamposto Idlib (nel nord ovest). A guidare questa formazione è Abu Mohammad al-Jolani, che oggi nel dibattito pubblico viene definito come il leader «dei ribelli» ma la cui storia intreccia alcune tra le peggiori e più temute formazioni terroristiche e jihadiste.
È stato al-Jolani a imbastire il versante siriano di al Qaeda, il fronte al Nusra, che si è radicato appunto innanzitutto a Idlib. E sempre lui – diventato ora l’uomo più potente di una Siria in transizione – a essersi coordinato con al Baghdadi, a capo di quello che poi è diventato l’Isis e ucciso cinque anni fa.
Negli ultimi tempi, e specialmente da quando è stato costituito l’Hts, al-Jolani ha cercato di riposizionare la propria figura e quella della sua formazione, con una vera e propria operazione di rebranding: il passaggio chiave è la apparente rinuncia alle operazioni transnazionali e la scelta di focalizzarsi sul piano di installare una repubblica islamica in Siria. «Chi stabilisce chi è terrorista? Gli stati»: è tra le frasi di al-Jolani.
Ma a dispetto dei tentativi di normalizzazione da parte di Hts e del suo leader, già in queste ore arrivano i timori, in particolare tra le minoranze, per la presa del potere da parte del gruppo armato sunnita.«La caduta di Assad è una vittoria per la nazione islamica», ha detto al-Jolani questa domenica, lanciando affondi in particolare contro gli interessi iraniani nella regione.
Gli equilibri regionali
Nel frattempo gli altri attori presenti nell’area, o interessati a essa, si sono mossi in modo più o meno convulso. Tramite l’”esercito nazionale siriano”, la Turchia agiva già sia in funzione anti Assad che anti curda, e infatti questa domenica mattina dal palco del forum di Doha (dove si è discusso il dopo Assad) il ministro degli Esteri turco ha rivendicato protagonismo nell’area. «Lavoreremo per la stabilità e la sicurezza in Siria», ha detto Hakan Fidan, aggiungendo che «la nuova Siria non dovrebbe minacciare i vicini ma eliminare le minacce»; tra queste include le formazioni curde.
Poi c’è Israele: Netanyahu questa domenica ha mandato ufficialmente l’esercito (Idf) a prendere controllo di un pezzo di Siria, quello nell’area delle alture del Golan; già nel pomeriggio il monte Hermon era preso, con l’argomento di «sottrarre la zona cuscinetto ai ribelli» occupandola. La caduta di Assad «è una opportunità per Israele», ha detto esplicitamente il premier. Sempre nella giornata di domenica, sono piovute bombe di sospetta provenienza israeliana in Siria, sia su basi militari e depositi di armi, che a Damasco.
Russia, Stati Uniti, Europa
Assad aveva già organizzato la fuga sua e della sua cerchia, utilizzando tutti i canali utili, ad esempio spedendo già lunedì scorso il patriarca siro-ortodosso Ignazio Efrem II da Viktor Orbán; già in passato Budapest ha accolto con visti d’oro figure come Atiya Khuri, l’”uomo dei soldi” di Assad, e oggi l’autocrate ungherese, per i legami comuni con Putin ma pure per quelli con Trump, può favorire i negoziati per una fuga sicura. Se già domenica mattina era chiaro che il dittatore siriano fosse fuggito da Damasco in tempo per non finire sotto la mano degli oppositori, in serata è arrivata anche la notizia ufficiale da Mosca: lì si trova Assad, sotto lo scudo dell’asilo concesso dalla Russia.
Russia che ha chiesto per questo lunedì una riunione di emergenza del consiglio di sicurezza Onu proprio in tema Siria. Il Pentagono assicura che «continuerà a difendere le proprie forze, i partner e a prevenire il riemergere dell’Isis nell’est della Siria». Biden parla di «opportunità storica» e invoca punizioni per Assad («deve render conto» dei suoi misfatti»); ma fa i conti col futuro inquilino della Casa Bianca, più interessato al disimpegno. «Gli Usa non dovrebbero aver nulla a che fare con tutto ciò: non è la nostra battaglia!», dichiara a grandi lettere Trump.
Nel mezzo c’è l’Europa. Lasciando da parte lo schiaffo politico arrivato a Giorgia Meloni, che negli ultimi mesi lavorava in Ue per la normalizzazione del regime di Assad (anche per far considerare la Siria paese sicuro), o l’incredibile storia dei ribelli che si fanno strada nell’ambasciata italiana a Damasco («per fortuna l’ambasciatore era al sicuro», ha detto questa domenica Tajani), la reazione dell’Ue è apparsa incerta.
Per ore i vertici sono rimasti in silenzio; la prima a parlare è stata l’ex premier estone e falco anti Mosca, Kaja Kallas, ora in veste di alto rappresentante Ue: «Un fatto positivo» la caduta di Assad, «che mostra la debolezza di Russia e Iran». Dopo è arrivata Ursula von der Leyen, evidenziando «opportunità ma anche rischi» e ingaggiando l’Ue nella ricostruzione del paese. Il premier Jalali mantiene l’incarico fino al passaggio di poteri.
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