- Il complesso dell’industria militare europea, con i colossi di Italia e Francia in prima linea, ha un piano tanto perfetto quanto paradossale: sta tentando con successo di trasformare il fallimento in Afghanistan nella propria rivincita.
- L’ex ministro Marco Minniti, che ora lavora per Leonardo, scrive editoriali in cui cita Lenin e poi conclude: «All’Europa serve una politica di difesa comune». Josep Borrell, la Commissione europea e i governi stanno effettivamente lavorando a questo.
- E chi ne trarrà vantaggio? Finora, l’impegno dell’Ue in quest’ambito è stato fortemente orientato dalle lobby dell’industria ed è andato anzitutto a profitto loro.
Il complesso dell’industria militare europea, con i colossi di Italia e Francia in prima linea, ha un piano tanto perfetto quanto paradossale: sta tentando con successo di trasformare il fallimento in Afghanistan nella propria rivincita. «Alcuni eventi catalizzano la storia, e la débacle in Afghanistan è uno di questi eventi»: con queste parole, l’alto rappresentante Ue Josep Borrell argomenta l’urgenza di «rafforzare l’impegno» dell’Unione europea nell’ambito della difesa. Finora i fondi europei dedicati alla difesa, oltre a crescere esponenzialmente, non hanno fatto che alimentare con soldi pubblici i colossi come Thales e Leonardo. Ed è esattamente sotto l’ombrello di una difesa comune europea da rafforzare che si riparano ora le lobby dell’industria. Dietro le citazioni di Lenin («ci sono settimane in cui accadono decenni»), l’ex ministro degli Interni Marco Minniti, che ora lavora per Leonardo con il ruolo di presidente della fondazione Med-or, scrive editoriali su Repubblica la cui conclusione è: «All’Europa serve una politica di difesa comune, basta con l’unanimità». Per come si è sviluppato finora però, l’impegno dell’Ue in questo ambito è stato fortemente orientato dalle lobby dell’industria ed è andato anzitutto a vantaggio loro.
Incontri strategici
Ieri Mario Draghi si è incontrato con il presidente francese Emmanuel Macron. Tra le ragioni sostanziali che spingono il premier italiano a volare a Marsiglia per intessere decisioni con l’Eliseo c’è proprio la volontà di «rilanciare la difesa comune europea» e l’interesse in tal senso degli apparati industriali dei due paesi. Sempre ieri, di difesa comune hanno discusso i vari ministri della Difesa dell’Unione europea, che si sono dati appuntamento in Slovenia. Se Borrell parla di «eventi catalizzatori» c’è un motivo: i progetti erano già in cantiere, e «l’evento», cioè la disastrosa uscita dall’Afghanistan, può favorire il processo.
Entro la primavera del 2022 l’Unione europea ha intenzione di adottare un documento strategico, lo EU Strategic Compass («Bussola strategica dell’Ue»), sul quale hanno lavorato ieri i ministri. Proprio i governi degli stati membri infatti, con il servizio europeo per l’azione esterna (Eeas) al cui vertice c’è Borrell, sono impegnati sul dossier; sul quale invece finora non è stato coinvolto l’Europarlamento, né la società civile. Eppure, a detta di Borrell stesso, «la bussola determinerà con precisione le nostre ambizioni in ambito di sicurezza e difesa per i prossimi 5-10 anni». L’Europa «deve investire di più in sicurezza». La crisi in Afghanistan è l’innesco perfetto: come ha dimostrato Joe Biden anche nell’intransigenza sull’uscita entro il 31 agosto a dispetto delle richieste europee, l’Ue «ha tratto una lezione afghana: è cruciale la nostra autonomia strategica», parole del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Sugli altri, Usa inclusi, non si può contare troppo: quale alibi migliore per rimpinguare l’apparato industriale made in Europe? E infatti l’ex manager francese Thierry Breton, che si occupa di politica industriale come commissario europeo al Mercato interno, è corso a dire che «bisogna aumentare le capacità di difesa» e che «ormai non c’è alternativa, a una difesa comune europea». I governi europei, e Borrell, discutono anche l’ipotesi di creare una initial entry force, una truppa targata Ue di 5mila militari: a detta dell’alto rappresentante Ue, «è per agire in modo immediato e robusto in situazioni come quella vista all’aeroporto di Kabul». Non è detto che l’idea dell’armata europea vada a segno, vista la preferenza di alcuni, come paesi baltici e dell’est, di rimanere ancorati alla Nato. Ma questa è solo la superficie di un progetto più profondo.
Storia di una difesa da business
Sembra paradossale, se si pensa che l’integrazione europea stessa nasce come antidoto al ripetersi di altre guerre dopo il trauma della Seconda guerra mondiale, e per disinnescare ogni rivalità franco-tedesca a cominciare dalle risorse come carbone e acciaio. Eppure la militarizzazione dell’Unione comincia una ventina di anni fa proprio mentre l’Europa si sta interrogando sul suo futuro: è il 2002, è in corso la Convenzione sul futuro dell’Europa. A discutere delle sorti della difesa europea ci sono prevalentemente lobbisti dell’industria militare, che chiedono – e ottengono – la nascita di un’agenzia europea per la difesa. La missione dichiarata della European defence agency è «rafforzare l’industria della difesa». L’agenzia nasce «al 95 per cento identica a come la avevamo chiesta», dirà Michel Troubetzkoy, un’esperienza come lobbista di punta di Airbus, che chiese «personalmente a Valéry Giscard d’Estaing di dare, con questa agenzia, nuova forza alla cooperazione per la difesa». Quel che segue mantiene l’impronta delle imprese, come ricostruisce un dossier appena stilato da Enaat (la rete europea contro il commercio di armi) e dalla fondazione Rosa Luxemburg, intitolato A militarised Union. Sotto l’egida di quella stessa guerra al terrore che ha giustificato l’intervento occidentale in Afghanistan, nel 2003 la Commissione Ue si avvale di un gruppo di personalità che dovrebbero farle da consulenti in tema di ricerca e sicurezza; su 25 membri, ben otto vengono dall’industria della sicurezza, e ovviamente spingono perché al settore arrivino fondi europei. L’uscita dell’euroscettico Regno Unito dall’Ue accelera il processo. «Nel 2015 le dieci più grandi compagnie di armamenti e le loro lobby hanno avuto ben 327 incontri con Commissione e membri di gabinetto; una cinquantina di lobbisti intanto circolavano indisturbati per l’Europarlamento e nelle istituzioni», sono i numeri del dossier.
I vantaggi della lobby
Nel 2015 Bruxelles istituzionalizza un nuovo gruppo di personalità sulla ricerca per la difesa, che dovrebbe dare indicazioni di strategia e suggerimenti su come usare i fondi. In quel gruppo non ci sono organizzazioni della società civile né membri dell’accademia, ma in compenso c’è Leonardo, c’è Airbus, ci sono Bae, Mbda, Saab, Indra, Asd… Sette membri su 16 rappresentano l’industria delle armi; gli altri sono politici. La conclusione prevedibile a cui arriva il gruppo è che «bisogna rafforzare la posizione militare europea» dedicando tre miliardi e mezzo alla ricerca militare. E la commissione agisce di conseguenza, a novembre 2016: propone il fondo europeo per la difesa. Quell’anno le dieci principali compagnie del settore dichiarano 55 milioni di spesa per attività lobbistica; Airbus spende più di un milione e mezzo e ottiene ben 157 incontri con l’esecutivo Juncker. Leonardo di meeting ne ha 35; i dati più recenti sulla sua attività lobbistica mostrano un’impennata nel 2016 e poi uno sforzo costante, con una spesa annua nel 2019 tra i 300 e i 400mila euro e 48 incontri con la Commissione. Quando il programma europeo inizia a concretizzarsi, con una “azione preparatoria” 2017-2018 per la ricerca da 90 milioni, guarda caso la gmetà di quel budget finisce proprio a sette compagnie che erano nel gruppo di personalità; Leonardo è in testa (circa sei milioni). I fondi per lo sviluppo, ancora maggiori (500 milioni del bilancio comune per 2019 e 2020), finiscono in buona parte a otto aziende dello advisory group, coinvolte in 9 progetti su 16.
Il fondo per la difesa e il futuro
Tra 2017 e 2019 i paesi a beneficiare di più del fondo per la difesa sono Francia, Italia, Germania e Spagna, mentre il 40 per cento di paesi Ue riceve pochi soldi o nulla. Tra le aziende che traggono più vantaggi fugurano sempre Thales, Leonardo, Indra e poche altre. Nell’era di Next generation Eu lo schema è lo stesso ma la portata è estremamente più vasta: dal mezzo miliardo dedicato fino al 2020, ora si passa agli otto miliardi per il 2021-2027; da spendere in progetti focalizzati sulla “next generation di armamenti”, come la chiama Enaat (droni e così via). Per la prima volta nella storia di un’Europa che si era messa insieme per disarmarsi, i soldi comuni vengono spesi per rafforzare l’industria delle armi e la sua «competitività». La sinistra europea, dal suo avamposto in Germania cioè Die Linke, questa estate ha portato in tribunale il fondo europeo per la difesa: sostiene che va contro i trattati europei, e spera nella corte tedesca perché a suo dire con il fondo l’Ue scavalla il passaggio democratico nel bundestag. Il punto, più in generale, è che mentre le grandi compagnie degli armamenti prendono sempre più spazio – e più fondi – non aumenta invece il grado di controllo democratico, anzi. L’agenzia europea per la difesa ad esempio sfugge allo scrutinio dell’Europarlamento. Questa stessa agenzia ha attirato i moniti del difensore civico Ue perché ha autorizzato il passaggio del suo ex direttore esecutivo a Airbus. Le porte girevoli sono l’ennesimo segnale, se mai servisse, della partita che le aziende stanno giocando a Bruxelles.
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