- Non c’è solo Roma. L’Europa è attraversata da crisi di governo: c’è quella latente in Francia, dove Emmanuel Macron non può appoggiarsi a una maggioranza assoluta in aula. C’è quella deflagrata nel Regno Unito: i conservatori hanno scalzato Boris Johnson e scelgono il successore, prima alla guida del partito, poi del governo. E c’è la prima ministra dell’Estonia, che ha cacciato un partner di governo e si è dimessa.
- Ma il passo indietro serviva a farne uno in avanti: ieri Kaja Kallas ha formato un nuovo governo, più “falco” di prima. Anche la cacciata di Johnson serve ai conservatori per imporre un leader ancor più falco di lui. E la friabilità di Macron sdogana l’estrema destra nelle istituzioni.
- Più il presidente è debole, più fa gioco di sponda con Marine Le Pen. Da giugno a oggi, i favori reciproci vanno dall’elezione di due vicepresidenti per Le Pen, al salvataggio della prima ministra per Macron. I focolai di crisi inclinano a destra l’Europa in un frangente cruciale: c’è un inverno difficile da gestire.
Non c’è solo Roma. L’Europa è attraversata da crisi di governo: c’è quella latente in Francia, dove Emmanuel Macron non può appoggiarsi a una maggioranza assoluta in aula. C’è quella deflagrata nel Regno Unito: i conservatori hanno scalzato Boris Johnson e scelgono il successore, prima alla guida del partito, poi del governo. E c’è la prima ministra dell’Estonia, che ha cacciato un partner di governo e si è dimessa. Ma il passo indietro serviva a farne uno in avanti: ieri Kaja Kallas ha formato un nuovo governo, più “falco” di prima. Anche la cacciata di Johnson serve ai conservatori per imporre un leader ancor più falco di lui. E la friabilità di Macron sdogana l’estrema destra nelle istituzioni. I focolai di crisi inclinano a destra l’Europa in un frangente cruciale: c’è un inverno difficile da gestire.
L’Estonia falco d’Europa
Proprio come in Italia, c’è un voto in agenda – a marzo scade la legislatura – e c’è un premier che si dimette pur avendo i numeri per governare. Succede in Estonia, dove c’è pure già il finale della crisi di governo: Kaja Kallas, la prima ministra che si era dimessa, ha appena battezzato un nuovo governo, sempre sotto la sua guida, ma con una maggioranza a lei più affine e più solida.
Kallas è stata soprannominata «la lady d’acciaio d’Europa» per le posizioni intransigenti verso la Russia; il paese baltico da lei governato è quello che ha spedito più armi a Kiev in proporzione al Pil. Di simile a un’altra iron lady, Margaret Thatcher, Kallas ha anche le posizioni liberiste. Il “partito delle Riforme” fondato da suo padre, l’ex primo ministro ed ex commissario Ue Siim Kallas, ha nel manifesto «tasse basse e un’ampia libertà di mercato e di impresa».
Con un’inflazione che nel paese a giugno è arrivata al 22 per cento, le divergenze di vedute sul da farsi, in coalizione di governo, si sono fatte sentire: il “partito di Centro”, di stampo social-liberale, era più orientato alla mitigazione sociale della crisi. La scelta di Kallas di cacciare i sette ministri di Centro dal governo è stata un modo per liberarsi di un sabotatore interno, il leader di Centro Jüri Ratas, ex premier con uno scandalo corruzione in curriculum. In chiave internazionale, la formazione di Ratas è di estrazione russofona e fino a prima della guerra era vicina a Russia Unita.
Quando si è consumata la rottura e Kallas ha presentato le sue dimissioni, il presidente della Repubblica le ha firmate, ma impegnandola a formare un nuovo governo. Il 15 luglio è stato siglato un nuovo patto di coalizione tra il partito della prima ministra, i socialdemocratici e i nazionalisti conservatori di destra, e proprio ieri Kallas ha presentato il suo nuovo governo: Finanza e Welfare vanno al suo partito liberista, gli Esteri ai conservatori, che vogliono togliere la residenza a chi giustifica l’aggressione di Putin.
Kallas ieri ha detto che «abbiamo davanti tempi duri»; ora sarà più «dura» anche lei.
Liaison tra Macron e Le Pen
«Il cordone sanitario non c’è più», come ha detto trionfante a luglio il deputato lepeniano Kévin Mauvieux. Nel 2017 un Emmanuel Macron in cerca del primo mandato all’Eliseo aveva dichiarato di voler mettere all’angolo l’estrema destra; oggi il presidente al secondo mandato è responsabile dell’istituzionalizzazione dell’estrema destra. Macron è infragilito sia per il crollo di popolarità – un recente sondaggio di Bfm Tv dice che solo 12 francesi su cento sono soddisfatti di lui – che per la mancanza di una maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale.
Il consenso in discesa e il quadro istituzionale in fibrillazione fanno della Francia uno dei focolai di crisi potenziale. E più Macron è debole in aula, più fa gioco di sponda con Marine Le Pen.
L’immagine del presidente che stringe la mano alla leader del Rassemblement national, il 21 giugno all’Eliseo, mentre verifica se è disponibile a far parte di un governo di unità nazionale, non è che la raffigurazione plastica del rapporto di mutuo soccorso che vige tra i due in questa fase. Da giugno a oggi, i favori reciproci vanno dall’elezione di due vicepresidenti per Le Pen, al salvataggio della prima ministra per Macron.
La cronistoria di queste derive è lunga, ma un innesco della situazione attuale è la scelta di Macron di demonizzare la sinistra al pari dell’estrema destra durante la campagna per le legislative: nei duelli del secondo turno tra Nupes, sinistra ecologista, e Rassemblement national, estrema destra, invece di far blocco anti destra tanti macroniani si sono astenuti.
Le Pen che nel 2017 aveva otto deputati, dunque neppure un gruppo parlamentare, è riuscita a giugno in un sol colpo a sbaragliare il competitor Éric Zemmour e a portare all’Assemblée 89 parlamentari. Ma non è finita qui. Dopo essere entrato in massa in parlamento, il partito di Le Pen ha anche ottenuto due vicepresidenze su sei – per Sébastien Chenu ed Helène Laporte – con il benestare dei macroniani. Eppure i candidati alternativi, ecologisti, c’erano.
La caduta di ogni argine verso Le Pen – «rispetto delle volontà degli elettori», lo hanno chiamato i macroniani – era del resto chiara dai posizionamenti di vari esponenti dell’entourage del presidente. Dopo il voto di giugno, si sarebbe potuto «andare assieme al Rassemblement» per il ministro Eric Dupond-Moretti, «cercare i loro voti» per la deputata Céline Calvez, in ogni caso «discutere con loro» per l’ex ministra Barbara Pompili.
A inizio luglio Élisabeth Borne ha nominato il suo secondo governo e al momento di confrontarsi con l’aula ha sperato di evitare il voto di fiducia; ma la sinistra ha avanzato una mozione di sfiducia. Se non è passata, e se il governo è ancora in piedi, è anche perché i lepeniani hanno regalato a Borne (e a Macron) la loro astensione.
Ieri in aula è arrivato il provvedimento sul potere di acquisto, un test importante per il presidente, e i lepeniani hanno definito «un’urgenza» votarlo. «Siamo gente seria», dicono i deputati di Le Pen, il cui principale obiettivo è normalizzare la presenza nelle istituzioni. Macron la aiuta: in questi giorni il suo bersaglio a destra è l’ormai irrilevante Zemmour.
Londra e la sterzata a destra
Non ci sono dubbi sul fatto che il Partito conservatore continuerà la linea da “falco” di Johnson sull’Ucraina. Il confronto tv tra i candidati conferma che il successore del primo ministro uscente sarà più «falco» anche in economia.
Rishi Sunak, il primo a dimettersi dal governo e il primo a ufficializzare la sua candidatura, si era scontrato col premier proprio sul tema della spesa pubblica: Sunak è per l’austerity dura. La competitor Liz Truss, ministra degli Esteri “falco” verso la Russia, come lui è per i tagli fiscali.
Nel confronto tv tra i contendenti alla leadership, tanti hanno fatto riferimento a sforbiciate fiscali, nessuno alla fine che farebbero i servizi pubblici. Anche la coesione sociale è finita fuori scena.
Il premier pro Brexit ha sedotto in passato pure le roccaforti laburiste; chi verrà dopo di lui virerà a destra senza ondeggiamenti.
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