Balázs Orbán è arrivato a sostenere che se Zelensky avesse imparato la lezione del 1956 non avrebbe provato a resistere a Mosca. Persino il premier ungherese ha dovuto riconoscere che il suo braccio destro si era spinto troppo in là. Per gli storici ungheresi «ormai la propaganda orbaniana ha superato il limite al punto che persino gli orbaniani non la controllano più»
«Ormai la propaganda orbaniana ha superato il limite al punto che persino gli orbaniani non la controllano più», dice lo storico Balázs Trencsényi. E racconta che sul treno da Budapest a Vienna non si parlava d’altro che del “caso Balázs Orbán”. «Giovani coppie, anziani… Ungheresi di ogni età scandalizzati».
Con la memoria collettiva del 1956 non si scherza; lo sa pure il premier ungherese, che infatti stavolta ha dovuto fare ammenda.
Il caso Balázs Orbán
In un colloquio con Mandiner, portale filogovernativo, Balázs Orbán, il direttore politico del premier, ha dichiarato che «dall’esperienza del 1956 abbiamo tratto la lezione che bisogna trattare con cura le preziose vite ungheresi. Sulla base di questo insegnamento, non avremmo fatto ciò che ha fatto Zelensky: è stato irresponsabile da parte sua portare il paese in una guerra difensiva nella quale tante persone sono morte».
Balázs Orbán conosce bene la propaganda orbaniana, che si occupa personalmente di diffondere all’estero, ora come esponente del governo, prima come presidente del consiglio di amministrazione del Mathias Corvinus Collegium, la macchina di soft power orbaniana le cui ramificazioni ora arrivano anche a Bruxelles. Nell’Mcc si costruiscono narrazioni (e alibi per derive autocratiche) e si stabiliscono connessioni (e alleanze politiche pure con la destra italiana).
Nell’autunno 2022, subito dopo la vittoria elettorale di Giorgia Meloni, Balázs Orbán era su un palco romano a lanciare affondi contro le sanzioni alla Russia, con Raffaele Fitto e Lorenzo Fontana in platea. Il suo libro La sfida ungherese è stato portato in Italia da Francesco Giubilei e dalla casa editrice Giubilei Regnani.
L’omonimo del premier segue la via da lui intrapresa: quella di cavallo di Troia di Putin in Europa. Dunque la retorica è la stessa usata da Orbán (Viktor) in tutte le ultime campagne elettorali, da aprile 2022 a giugno 2024: bisogna disimpegnarsi in Ucraina perché altrimenti è panico nucleare, «viva la pace e non la guerra».
Ovviamente le contraddizioni sono ovunque, a partire dal fatto che in Ciad – poiché in questo caso alla Russia faceva gioco – il governo ungherese ha avviato una missione militare. Dietro la propaganda ci sono i rapporti con Putin: non solo la vistosa visita del premier al Cremlino, ma pure gli incontri continui tra il suo ministro degli Esteri Péter Szijjártó e gli esponenti russi. Soldi, petrolio russo, visti concessi ai russi ed eterni progetti di centrali nucleari: il legame tra Orbán e Putin non si è interrotto, dal loro incontro cruciale nel 2009, all’annuncio di mercoledì scorso sulla «neutralità economica» ungherese.
Nel 2015 Putin a Budapest era andato a omaggiare «gli eroi sovietici del ‘56»: un affronto. Ma spingere la propaganda al punto da sostenere che, per evitare le vittime del ‘56, pure gli ungheresi eviterebbero di resistere ai russi, era troppo. Prima Balázs Orbán ha usato la solita tattica: accusare i media di mistificarlo. Ma poi lo stesso premier (che ha iniziato l’ascesa nel 1989 invocando l’uscita delle truppe sovietiche) si è reso conto, da pragmatico qual è, che il limite era superato.
Del resto nei sondaggi la distanza con l’oppositore Péter Magyar si riduce sempre più: non ci si può permettere altri cali di consenso. Così nel suo intervento radiofonico del venerdì mattina ha detto: «Il mio direttore politico è stato ambiguo, il che è un errore. La nostra comunità politica non esisterebbe senza gli eroi del 1956. Il dibattito attuale non dovrebbe includerli». A quel punto Balázs Orbán (con l’opposizione a invocarne le dimissioni) è andato al traino del capo: «Non volevo essere ambiguo, è stato un errore e me ne scuso».
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