Damasco è presa e il presidente siriano è fuggito. Nella serata di domenica, la Russia annuncia di avergli concesso asilo, e che Assad si trova a Mosca con la sua famiglia. Questa è la parte nota della storia.

Poi c’è il resto: il caso controverso del passaggio di un aereo a Budapest, successivamente smentito, ma comunque preceduto da incontri al vertice pochi giorni prima. E c’è una certezza: Bashar al-Assad ha chiesto supporto a Viktor Orbán, l’autocrate ungherese, cavallo di Troia del Cremlino in Ue e canale con il presidente eletto Trump. 

Il caso dell’aereo segreto

Per capire meglio il ruolo dell’Ungheria nella fuga di Assad bisogna incrociare le informazioni che arrivano dalla Siria e da Budapest. Domenica la Siria si sveglia senza il suo presidente: «il tiranno è fuggito», annunciano gli oppositori; è fuggito su un aereo, scrive l’agenzia Reuters citando fonti dell’esercito. Il portale flightradar mostra che un aereo Syrian Air ha lasciato la capitale quando le forze anti-Assad stavano per piegarla. Dopo pochi minuti, il velivolo ha fatto perdere le sue tracce.

E ci spostiamo allora a Budapest. Al terminal 1 dell’aeroporto di Budapest-Ferihegy è già buio, ora di cena di sabato 7. La testata indipendente Magyar Hang riceve le foto di un aereo Syrian Air e da qui va in cerca di informazioni: Domani apprende così che l’arrivo dell’aereo è avvenuto con rigide misure di sicurezza, utilizzando personale diverso da quello aeroportuale (al quale non è stato consentito avvicinarsi); la testata ungherese viene anche a sapere – ma scrive che questo è da verificare – che all’aeroporto sarebbero state presenti unità antiterrorismo che hanno firmato un accordo di segretezza coi lavoratori. 

Insomma, più dell’atterraggio a Budapest, è un elemento chiave che non se ne dovesse sapere nulla. La mappa radar pubblica non ne porta traccia. Nella mattinata di domenica reagisce Péter Magyar, il principale oppositore di Orbán, che già in autunno ha compiuto uno storico sorpasso nei sondaggi e che continua a crescere nei consensi.

Magyar chiede spiegazioni al governo, non solo sul caso dell’aereo (che poco dopo il governo smentirà) ma sugli incontri e le relazioni che legano il premier e il regime. 

Alle 11:15, quando la notizia ha iniziato a circolare anche fuori dall’Ungheria e la prima versione non aggiornata di questo articolo è già online, il braccio destro di Orbán corre a liquidare tutto come fake news. ll segretario di stato alla comunicazione internazionale Zoltan Kovacs (noto all’opinione pubblica italiana anche per i virulenti attacchi a Ilaria Salis, oltre che per le uscite pro Putin) twitta che «le affermazioni che Assad sia arrivato in Ungheria sono false, le foto sono del 2012, l’aeroporto nega tutto e respinge i titoli sull’aereo misterioso».

A quel punto anche Magyar Hang prende atto della smentita e si scusa perché «l’immagine di un aereo di linea siriano venuta alla luce domenica notte non raffigura il volo del presidente in fuga». Ma in una nota ribadisce che «secondo le nostre fonti, prima della caduta del regime di Damasco, si è svolto un intenso lavoro diplomatico sul fronte ungherese-siriano; il governo non ha ancora rivelato alcun dettaglio al riguardo. Centinaia di siriani che finora hanno sostenuto attivamente e influentemente Assad vivono già a Budapest».

Il ruolo di Orbán

A fronte delle smentite ufficiali, non è possibile per ovvi motivi asserire che Assad fosse su un aereo passato da Budapest; peraltro un aereo siriano potrebbe semplicemente aver trasportato il suo entourage o pezzi chiave del sistema. E se anche il presidente fosse mai stato a bordo di un aereo diretto a Budapest, è chiaro alla luce delle dichiarazioni serali provenienti dalla Russia che non si è fermato lì, ma a Mosca.

Una cosa può essere ritenuta comunque certa: il presidente fuggitivo ha cercato il supporto di Orbán. Anche questo può essere ricostruito. Tra gli elementi fattuali pubblici c’è un incontro svoltosi lunedì 2 dicembre alla corte di Orbán, ovvero nella chiesa carmelitana di Buda divenuta sede della presidenza del Consiglio. Qui per incontrare il premier è arrivato il patriarca siro-ortodosso Ignazio Efrem II, e quel che più conta: è stato Assad a spedirlo a Budapest. Oggetto ufficiale dell’incontro: «La messa in sicurezza delle comunità cristiane» grazie al supporto del programma di assistenza ungherese (presente anche il segretario di stato deputato a questo, Tristan Azbej). 

Assad si è rivolto a Orbán con una certezza e una speranza. La certezza guardava a Vladimir Putin, con il quale Orbán non ha mai interrotto le relazioni: con un alleato così in comune, si può contare su Budapest in caso di emergenza. La speranza guardava a Donald Trump, e alla possibilità che il premier più ostentatamente fan del presidente eletto Usa potesse fare da canale per un negoziato sul futuro della Siria, o quantomeno sulla propria sopravvivenza. I passi diplomatici compiuti da Assad verso Trump trovano traccia ad esempio in una ricostruzione di Bloomberg del 7 dicembre (la data decisiva in cui Damasco è caduta): l’agenzia riferiva dei tentativi del presidente siriano di garantirsi quantomeno una fuga sicura, e del ruolo di Orbán nel negoziato. 

Sistemi intrecciati fra loro

I legami tra il sistema orbaniano e il regime di Assad hanno radici durature nel tempo, e queste radici – che coinvolgono direttamente figure chiave come il fiduciario economico del presidente siriano – hanno estensioni tanto nei legami economici quanto nelle concessioni di visti. 

A questo allude ad esempio Magyar, che era parte del sistema orbaniano prima di criticarlo e lanciare il suo movimento Tisza; e che non a caso al governo chiede tra le altre cose «quanti uomini d’affari legati ad Assad abbiano partecipato al programma di obbligazioni di Antal Rogán», potentissimo ministro che controlla anche i servizi segreti.

Nel 2012, spingendo in tutta fretta il provvedimento in parlamento, Fidesz ha approvato uno schema per visti d’oro che preludeva a una compravendita tra visti e obbligazioni con controparti opache: comprando un buono statale da 300mila euro si otteneva un documento che consentiva di muoversi dentro Schengen per tre mesi. Come lo storico Stefano Bottoni riepilogava già anni fa in “Orbán. Un despota in Europa”, «dal 2013 al 2017, quando le autorità americane ne imposero la sospensione per motivi di sicurezza, lo schema (ungherese di visti d’oro, ndr) consentì a quasi 20mila stranieri, oltre la metà dei quali cinesi o russi, di stabilire residenza legale in Ungheria. Fra i beneficiari vi era Atiya Khuri, fiduciario economico del dittatore siriano Assad». 

L’”uomo dei soldi” di Assad, Atiya Khoury, nel 2016 era finito nella lista dei sanzionati dal dipartimento del tesoro statunitense proprio per aver supportato il presidente siriano. L’ufficio immigrazione ungherese ha confermato già anni fa che Khoury ha comprato nel 2014 un visto d’oro (“residency bond” in questo caso) e che tre anni dopo – con Washington già sul collo – ha ottenuto un permesso di residenza permanente in Ungheria. Budapest ha aperto le porte all’uomo chiave di Assad dopo che gli americani lo avevano già inserito nella lista nera. 

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