- L’Europa prova a vincolare le corporation, e quindi le catene del valore globali, ai diritti di persone e ambiente. Ma le lobby della grande industria vanno all’assalto; non a caso la nuova iniziativa Ue è per ora rinviata.
- Da H&M che chiede a Bruxelles «un approccio pragmatico» ai big della cioccolata che chiedono di non «esporre le aziende a rischi eccessivi», da Danone ai colossi dell’energia: ecco le prove dell’influenza esercitata dalle corporation.
- Sono nel dossier di Friends of the earth, European coalition for corporate justice e Corporate Europe observatory, che abbiamo visionato in anteprima.
Se l’Europa prova a muoversi, i lobbisti delle multinazionali vanno all’assalto. L’Ue culla da tempo l’idea di imporre vincoli più stringenti alle corporation, perché rispettino lungo tutta la filiera i diritti delle persone e dell’ambiente; per evitare ad esempio che la cioccolata mangiata dai bimbi europei sia stata lavorata dai loro coetanei di altri continenti. Ma ogni tentativo di vincolare le catene del valore globali ai diritti dei lavoratori e al rispetto dell’ambiente si scontra con le lobby della grande industria. Ora ne abbiamo le prove: sono raccolte nel dossier che abbiamo visionato in anteprima e che verrà pubblicato oggi dalle tre ong Friends of the earth, European coalition for corporate justice e Corporate Europe observatory. La loro ricognizione rivela l’influenza esercitata dalle corporation, tattiche e obiettivi.
La legge nel freezer
Cominciamo dal finale: c’è una proposta della Commissione europea che doveva essere già sul tavolo e invece è congelata. Bruxelles promette che arriverà in autunno; il dato di fatto è che è rinviata, bisogna aspettare almeno settembre. Non è tutto. Il commissario europeo con delega alla Giustizia, Didier Reynders, che presidiava il dossier, da meno di un mese si ritrova affiancato dal commissario al Mercato interno. Thierry Breton, che prima di essere mandato a Bruxelles da Emmanuel Macron era a sua volta un super manager, porterà il punto di vista dell’industria. «Bisogna assicurarsi un equilibrio», ha detto un portavoce della Commissione per spiegare i ritardi e il subentro di Breton. Ma che cosa deve produrre esattamente Bruxelles? Ad aprile 2020, la Commissione europea ha annunciato una sua iniziativa sulla “corporate due diligence”. Significa che, se vogliono avere accesso al mercato europeo, le aziende devono farsi carico di verificare il loro impatto su persone e ambiente lungo tutta la catena di valore, subappalti e sussidiarie inclusi. L’iniziativa è molto attesa dalla società civile: più di 700 organizzazioni, sindacati, ong, e mezzo milione di persone si sono spesi per chiedere regole stringenti. Come la stessa Ue prende atto nei suoi rapporti, il panorama legislativo attuale è percepito come «inefficiente, inefficace e incongruente». Affidarsi alla buona volontà delle aziende (e quindi a iniziative volontarie di “corporate social responsibility”) non basta. L’europarlamento a marzo ha rivendicato con ampia maggioranza una iniziativa legislativa ambiziosa: le aziende devono essere obbligate a verificare e far rispettare i diritti, e risponderne in tribunale oltre che essere sanzionate se non lo fanno.
Tattiche di indebolimento
Nel loro report Off the hook?, le tre ong Friends of the earth, European coalition for corporate justice e Corporate Europe observatory fotografano i tentativi delle corporation – e dei loro lobbisti – di indebolire l’iniziativa europea «sia apertamente che dietro le quinte». L’accesso agli atti mostra ad esempio che BusinessEurope, la lobby delle imprese in Europa, ha usato tattiche svariate. Un anno fa, ha posto come argomento l’impatto della pandemia per avvertire Bruxelles che una legge avrebbe reso la vita ancor più dura alle imprese. A fine 2020, ha avvertito la direzione generale Giustizia (quella afferente al commissario Reynders) che «sarebbe meglio inserire una clausola safe harbour». Il “porto sicuro” significa evitare azioni legali. Quando la società civile si è mobilitata con una petizione, la federazione degli industriali lussemburghesi ha allertato i suoi membri: l’iniziativa «va controbilanciata». La associazione europea dei grandi marchi (Aim), i cui membri vanno da Coca Cola a Mars, da Danone a Nestlé, da Nike a Unilever, ha speso nel 2019 fino a 400mila euro per l’attività lobbistica in Ue. Lo scorso novembre ha bussato alle porte della direzione Giustizia per evitare che le corporation siano portate in tribunale, o perlomeno che siano legalmente perseguibili lungo l’intera catena del valore. Essere responsabili per tutta la catena sarebbe una sfida troppo grossa anche a detta di Amori, associazione di imprese con un budget per il lobbying pari a quello di Aim.
Vestiti, cacao ed energia
La catena di abbigliamento H&m, che già nel 2018 è finita sui giornali per gli abusi sulle lavoratrici lungo la filiera, è andata a chiedere a Bruxelles «un approccio pragmatico» e un sistema «coi giusti incentivi». Negli Usa, con l’aiuto dei difensori dei diritti umani, otto minorenni africani hanno sfidato in aula l’industria del cacao – Nestlé, Mars, Olam, Mondelez – per schiavitù infantile. A Bruxelles, Mars, Mondelez e l’associazione europea del cacao chiedono porti sicuri (clausole safe harbour) e di non «esporre le aziende a rischi eccessivi». Una nuova, incisiva legge europea significherebbe nuove sedute di tribunale. La multinazionale francese Danone, che per il lobbying a Bruxelles nel 2019 ha speso 500mila euro, all’apparenza è per la sostenibilità ma – svela il report delle ong – dietro le quinte sabota la legge. L’impatto ambientale della sua filiera è cresciuto dal 2015 al 2018. Le grandi aziende puntano a scalfire i futuri vincoli anche sul clima. Non a caso, oltre a vestiti o cibo, i grandi slanci lobbistici vengono dal settore dell’energia. Il colosso Total ha bussato alle porte della Commissione per dirle che sarebbe difficile applicare una nuova legge europea lungo tutta la filiera.
© Riproduzione riservata