Neppure le proteste per l’uccisione di Kuciak hanno smosso il partito socialista europeo, che solo ora parla di espulsione per Fico. Un precedente riguarda il premier ungherese: con la benedizione di Merkel, il Ppe ha aspettato troppo. E ora ha una spia in casa
Viktor Orbán ha fatto in tempo a sfondare la democrazia ungherese prima che la famiglia popolare europea si decidesse a separarsene. Robert Fico ha attraversato lo scandalo dell’uccisione di un giornalista, della corruzione, e poi più di recente una campagna elettorale filorussa, eppure è ancora nella famiglia socialista.
Dal Pd scattano le precisazioni, in coro: noi e Fico? Incompatibili. «Il tempo per noi è adesso», dice a Domani il responsabile Esteri della segreteria Schlein, Peppe Provenzano, entrato nel direttivo del partito socialista europeo a giugno. «È stato un errore soprassedere in tutti questi anni. Sono molte le ragioni di incompatibilità tra Fico e la nostra famiglia politica, le posizioni sull’Ucraina e non solo. Nel percorso che ci porterà al congresso di novembre, dove si assumono queste decisioni, come Pd faremo valere questa posizione».
Il tempo «è ora». Se dai tempi delle due grandi famiglie politiche europee si dovesse dedurre il tempo di reazione dell’Ue rispetto a derive autocratiche e tendenze filorusse, la conclusione sarebbe amara. Il motto «too little, too late» – troppo tardi, troppo poco – vale nei casi di Orbán e Fico sia per i gruppi politici, che per Commissione e Consiglio europei.
La lentezza di riflessi dell’Ue presta il fianco agli illiberalismi, sia interni che russi.
Il caso Fico
«Non è che il tema non sia stato affrontato», si schermisce il capodelegazione del Pd all’Europarlamento, Brando Benifei, riguardo all’appartenenza di Smer al gruppo socialdemocratico e al partito socialista europeo. «Ma l’appartenenza al gruppo dipende da quella nel partito europeo».
Quando è apparso chiaro che Fico era arrivato primo alle elezioni di sabato, e che avrebbe avuto l’incarico di formare un governo, Benifei ha lanciato un messaggio che voleva essere una presa di distanza: «Se Fico decidesse di governare con l’estrema destra, la procedura di espulsione sarebbe inevitabile. Lo ha detto il presidente del partito socialista europeo Stefan Löfven a un giornale svedese: se Fico dà seguito alle parole su Kiev e Nato, e se decide di governare con l’estrema destra, va espulso».
Ma c’era davvero bisogno di arrivare all’esito elettorale per capire che «non possiamo permetterci tentennamenti», come dice ora Benifei? Che Fico fosse un personaggio a dir poco controverso, se n’era accordo il mondo quantomeno dal 2018, quando la Slovacchia si è riversata nelle strade per l’uccisione di Ján Kuciak, che indagava sui legami tra uomini vicini all’allora premier Fico, intelligence e criminalità organizzata.
«C’era stata una sospensione durante il primo governo di Fico» , ripercorre Benifei; era il 2006, poi è stato riammesso nel 2009. Nel 2015 un altro italiano, Gianni Pittella, che all’epoca guidava il gruppo socialdemocratico, aveva invocato la sospensione di Fico dal partito europeo: le uscite islamofobe e anti migranti «hanno imbarazzato l’intera famiglia progressista», dichiarava all’epoca Pittella.
Ma non devono aver imbarazzato abbastanza: lo screzio è subito rientrato, sotto l’ombrello di un presunto «chiarimento». E Fico è ancora lì. «L’unica volta che la questione si è posta – racconta Lia Quartapelle, predecessora di Provenzano agli Esteri Pd – ho sostenuto il presidente Löfven che è stato duro con Smer; e che ha rimandato a dopo le elezioni la decisione».
Dunque eccoci qua: «Il nostro tempo è ora», per citare Provenzano. Intanto Fico è già alle prese con il rebus coalizione.
La beffa di Orbán
Il divorzio del partito popolare europeo con il partito del premier ungherese, Fidesz, è stato un processo di incredibile lentezza e non privo di tensioni interne alla famiglia politica stessa.
Dal 2010 è iniziata la deriva autocratica orbaniana, e da allora è successo di tutto: concentrazione di potere, attacchi a Bruxelles, ai media liberi, referendum anti migranti, stati di emergenza, sfondamento della democrazia. Eppure il Ppe non decideva. Tra tutte le ragioni, una delle più influenti è stata la posizione dell’allora cancelliera Angela Merkel, che in virtù dell’interdipendenza asimmetrica tra Ungheria e Germania – sì insomma, delle manifatture automobilistiche tedesche – ha usato fino all’ultimo con Orbán la via del compromesso. Persino poco prima di lasciare la guida della Germania, ha consegnato in eredità a Orbán un regalino; gli ha garantito che Ursula von der Leyen non avrebbe congelato i fondi Ue all’Ungheria prima delle elezioni di aprile 2022; infatti la Commissione europea ha attivato il meccanismo solo subito dopo la rielezione di Orbán.
E il divorzio dal Ppe, in tutto questo? Arrivati a inizio 2021, la situazione era così tesa fra i popolari – tra chi non digeriva l’imbarazzo, e chi fino a quel momento aveva tergiversato – che il tutto è deflagrato; e Orbán, capendo l’antifona, a marzo di quell’anno ha fatto il gesto di sbattere la porta, lasciando il Ppe. A dire il vero ha lasciato lì il suo cavallo di Troia: pochi lo hanno realizzato, ma il Kdnp dal Ppe non se n’è mai andato. Il Kdnp, e cioè il “partito popolare cristiano democratico”, è un partito-stampella di Orbán e del suo esecutivo, del quale fa parte. Sin dall’inizio della deriva dispotica del premier, dal 2010 in poi, il Kdnp governa con lui.
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