C’era una volta il ritornello per cui uno dei motivi per cui prendersela con l’Europa risiedeva nel suo “non fare abbastanza” per gestire e regolare i flussi migratori verso i propri confini, nella sua “mancanza di solidarietà”. Adesso, invece, la strategia della destra europea sembra essere cambiata: Bruxelles è di troppo, e deve sostanzialmente farsi da parte e lasciare agli Stati membri il diritto di tutelare i propri confini.

Il primo segnale in questo senso l’ha inviato Marion Maréchal, eurodeputata conservatrice e nipote di Marine Le Pen, rilanciando un vecchio video del nuovo primo ministro francese Michel Barnier. Era il 2021 e l’ex negoziatore per la Brexit, candidato alle primarie del centrodestra (perse) per le presidenziali dell’anno dopo, elencava il suo programma sull’immigrazione: una moratoria comprensiva di una drastica limitazione dei ricongiungimenti familiari, la fine delle regolarizzazioni e dell’assistenza medica gratuita, la facilitazione delle espulsioni, la riforma del diritto d’asilo e un referendum popolare che faccia da «scudo costituzionale» per questi provvedimenti.

Nel suo tweet, Maréchal aggiunge solo: «È ora di tenere fede a queste promesse». In effetti Barnier, nonostante il suo passato ruolo da negoziatore europeo, negli ultimi anni ha assunto posizioni decisamente più dure contro l’Ue, rimettendo in discussione il primato del diritto europeo su quello nazionale francese e, appunto, chiedendo una “Frexit” sulle politiche migratorie. Una posizione sostenuta, poche ore dopo, anche da due pesi massimi dell’estrema destra europea, direttamente dal Forum Ambrosetti di Cernobbio: Geert Wilders e Viktor Orbán.

L’olandese ha dichiarato come l’obiettivo sia un «un opt-out sull’immigrazione come in Danimarca», che permetterebbe di «essere più severi sui permessi di ingresso nel nostro Paese». Secondo il premier ungherese, invece, «non si può imporre a un Paese di accettare persone che pongono rischi in termini di sicurezza e carico sociale. Chi definisce se abbiamo bisogno di migranti? Alcune problematiche non dovrebbero essere decise a livello europeo, ma nazionale. Chi può decidere che Bruxelles deve gestire l’immigrazione per tutta l’Ue?  Sono i singoli leader delle singole nazioni a dover decidere».

Questa modifica nel linguaggio e nella postura merita considerazione anche perché arriva a pochi mesi dall’approvazione definitiva del Patto Ue su migrazione e asilo, che ha riscritto in parte proprio quelle regole europee di cui si chiedeva insistentemente la modifica. L’impressione, però, è che quelle divisioni emerse anche al momento del voto in Parlamento – alcuni testi, come quello sulle situazioni di crisi e sulle procedure d’asilo erano stati approvati solo grazie a numerose astensioni – si siano poi riverberate in una ricezione politica che ha scontentato tutti.

A sinistra, dove si ritiene che la riforma vada a ledere fortemente il diritto all’asilo; ma sorprendentemente anche a destra, per la quale il mettere mano concretamente alle politiche migratorie significa anche ridurre lo spazio di protesta contro le istituzioni europee. Da qui, il passo successivo e – forse – definitivo: Bruxelles non sarà mai davvero in grado di agire come chiediamo, per cui tanto vale muoversi in autonomia. E la dimostrazione dello sfondamento di questo pensiero arriva perfino da un paese con un governo di centrosinistra e una delle politiche migratorie più aperte, ovvero la Germania.

Negli ultimi giorni, infatti, rimbalza da Berlino l’idea che il paese possa subentrare al Regno Unito nel cosiddetto “piano Ruanda”, che consisterebbe nella deportazione nel paese africano di circa 10mila migranti all’anno. L’idea è stata proposta dal rappresentante speciale del governo federale per gli Affari migratori, il liberale Joachim Stomp, e riguarderebbe soprattutto i migranti provenienti dalla Bielorussia, oggetto di una “guerra ibrida” messa in atto da Putin e Lukashenko.

Nei mesi scorsi, la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson si era opposta all’idea di piani sul modello di quello UK-Ruanda, sostenendo che il patto approvato a Bruxelles in primavera non apre a scenari di questo tipo. Ma il rischio del “liberi tutti” è sempre in agguato.

© Riproduzione riservata