Fidesz si sfila prima che il Ppe approvi le regole per espellerlo. Per i conservatori europei, e per Giorgia Meloni, l’ingresso del partito ungherese «è questione di giorni». Intanto anche la Lega e i Cinque Stelle tentano di riposizionarsi. Ecco cosa è cambiato a Bruxelles, e perché porta a Roma
- Dopo anni di tentennamenti e di tensioni interne, il gruppo popolare approva a larga maggioranza nuove regole che preludono all’espulsione di Fidesz. Il premier ungherese anticipa il Ppe e annuncia che la sua delegazione all’Europarlamento esce dai popolari; per ora va nel gruppo misto.
- Il partito conservatore europeo, presieduto da Giorgia Meloni, è pronto ad accogliere Fidesz. «Le interlocuzioni sono in stadio molto avanzato, è questione di giorni» dicono da Ecr.
- Intanto Silvio Berlusconi e Forza Italia, tuttora pro Fidesz, puntano a portare la Lega di Matteo Salvini nel gruppo popolare.
Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, lascia il gruppo dei popolari europei. Se ne va lui, ma dopo anni di tensioni, e pochi minuti prima che siano i popolari ad aprire la strada per la sua espulsione. Con l’uscita di Orbán questa mattina, fallisce anche la strategia di inclusione che Angela Merkel ha portato avanti per anni nei confronti del sovranismo ungherese. La più grande famiglia politica del parlamento Ue ridefinisce i suoi assetti. Ma per conoscere quelli futuri europei bisogna guardare a Roma. Forza Italia, che fino all’ultimo ha difeso la permanenza di Orbán nella sua famiglia politica, lavora per l’ingresso di Matteo Salvini nel gruppo. I conservatori europei, la cui presidente è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, negoziano l’ingresso di Fidesz nel loro gruppo: «Le porte sono aperte, i contatti intensi. È questione di giorni», dice una fonte dell’Ecr. Anche le interlocuzioni tra Socialdemocratici e Cinque stelle possono ridefinire gli equilibri.
Storia di un divorzio
Le linee di frattura fra popolari e Fidesz emergono di pari passo con le derive illiberali del premier ungherese. Nel 2018 il parlamento europeo approva il Rapporto Sargentini e attesta le violazioni dello stato di diritto in Ungheria. Primavera 2019: il partito di Orbán attacca frontalmente l’allora presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, che è un popolare. Lo bersaglia con tanto di manifesti, stampa la sua faccia a fianco a quella di George Soros. «Ecco il dittatore!» è del resto il modo in cui Juncker accolse Orbán nel 2015. Due anni fa i popolari sospendono, ma non espellono, Fidesz dal partito europeo. L’anno successivo, a inizio pandemia, il premier ungherese avoca a sé i “pieni poteri”, suscitando gli entusiasmi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma irritando una fetta di popolari. Il premier greco, i conservatori belgi e lussemburghesi, e un folto gruppo di leader scandinavi vergano una lettera e ne chiedono l’espulsione. Orbán però ha le spalle coperte: a difendere la sua permanenza tra i popolari c’è Silvio Berlusconi e c’è la maggiore azionista della famiglia politica, cioè Angela Merkel. Cdu e Csu resistono alle richieste di durezza. La situazione si esaspera quando il premier ungherese, assieme a quello polacco, minaccia il veto ai fondi europei pur di disinnescare la condizionalità sullo stato di diritto. C’è poi una occasione formale che surriscalda il clima, ed è la dichiarazione di un europarlamentare di Fidesz, Tamás Deutsch, che attacca il capogruppo del Ppe Manfred Weber: «Usa metodi da Gestapo». Una volta chiuso l’accordo sui fondi di ristoro, i popolari affrontano il nodo.
Berlino e Berlusconi
A fine 2020, a difendere il premier ungherese ci sono ancora «gli italiani di Forza Italia, il partido popular spagnolo, i Républicains francesi. E poi c’è la Cdu che è divisa, metà per l’espulsione, metà no», dicono dall’ufficio di presidenza Ppe. A gennaio 2021 una task force è incaricata di rielaborare le regole del gruppo, e fornire gli strumenti per espellere non solo un individuo, ma una delegazione. Si arriva a oggi: ad ampia maggioranza, passano le nuove regole che consentono l’espulsione. Orbán capisce l’antifona, e mezz’ora prima del voto passa alla stampa ungherese la notizia che Fidesz lascia il gruppo. Invano ha provato a far valere gli stretti legami economici con la Germania: Judit Varga, ministra della Giustizia, alla vigilia dell’addio ha twittato che «i manager tedeschi si trovano benissimo, a fare affari con noi: per loro non siamo una dittatura». Stavolta però il legame tra Berlino e Budapest non è bastato, anche perché c’era un tedesco, Manfred Weber, a spingere per l’espulsione. Il presidente del gruppo parlamentare popolare, già silurato da Merkel come presidente della Commissione in favore di von der Leyen, mira a rimpiazzare David Sassoli alla presidenza dell’Europarlamento nelle nomine di midterm; e può far valere la cacciata “dell’autocrate”.
Salvini e Meloni
Massimiliano Salini, europarlamentare di Forza Italia, dice che «il mio partito, e Berlusconi in primis, sono stati e sono tuttora contrari all’espulsione di Fidesz». La sua delegazione, assieme a Germania e Francia, aveva proposto una modifica più morbida del regolamento, così che avviare l’espulsione fosse più complesso, ma la linea non è passata «e ci siamo adeguati». Ora la scommessa di Forza Italia è far entrare la Lega nel gruppo; Giancarlo Giorgetti intrattiene contatti con la Cdu. Ma se i popolari rifiutano Orbán, perché Salvini dovrebbe entrare? Salvini che intanto esprime solidarietà a Orbán e lo sente in videoconferenza. Salini dice che «la scelta della Lega di sostenere un governo con noi mostra un posizionamento simile. Serve un cantiere anche in Europa». Nell’immediato il gruppo che potrebbe rimpolparsi è quello conservatore (Ecr). «L’ingresso di Fidesz è solo questione di tempo, i dialoghi sono a livello avanzato» dicono da Ecr. La presidente del partito conservatore europeo, Meloni, ha stretto sempre più i rapporti con Orbán. In Ecr ci sono i polacchi di Pis, alleati di Budapest. VoteWatch calcola che all’Europarlamento Fidesz è in sintonia con Ecr 7 volte su 10. Ecco perché da Ecr parlano di «matrimonio naturale». Intanto, Orbán porta i suoi eletti nel gruppo misto. Non ha ancora lasciato la confederazione di partiti che forma il Partito popolare europeo, ma quest’ultimo accelera la procedura per espellerlo. Gli scenari europei sono in ridefinizione, e un altro fattore è l’eventuale ingresso degli europarlamentari stellati nel gruppo socialdemocratico. Le interlocuzioni sono in corso. Brando Benifei, capodelegazione Pd al parlamento Ue, dice che «stiamo lavorando coi Cinque stelle, ma servono altri passaggi per approdare a una cooperazione strutturata». Il centrosinistra si ripensa, e per ora i popolari vanno più al centro.
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